Gli allievi della BSMT messi alla prova in due titoli molto differenti
di Sandro Avanzo
Cosa sta succedendo nel mondo del musical sotto le due torri? I mesi estivi vanno mettendo in evidenza luci ed ombre alla Bernstein School of Musical Theater.
Con l’arrivo della stagione calda ci si aspettava che gli spettacoli del suo consueto e attesissimo A Summer Musical Festival (oggi alla VI edizione) trovassero finalmente casa nella nuova sede della scuola aperta nello scorso autunno. Lì, negli ambienti appena ristrutturati, nel teatro al coperto e nel magnifico spazio all’aperto sul tetto dell’edificio con lo sfondo delle colline emiliane.
Evidentemente i tempi di allestimento e forse anche problemi di altro tipo, non l’hanno ancora permesso e così si è tornati negli spazi chiusi del Teatro Duse (Le Streghe di Eastwick e Big Fish) e del Teatro Comunale (West Side Story). Si è persa l’atmosfera che apparentava il Festival ad Hyde Park o a Central Park ma si sono guadagnati il palcoscenico attrezzato e l’aria condizionata. Aspettando con entusiasmo gli spettacoli del prossimo anno che dovrebbero finalmente vivere nella bellissima sede di Bologna Ovest è però possibile fare un primo bilancio del festival attualmente in corso.
Al Duse si sono visti due allestimenti molto diversi, entrambi interpretati dai medesimi allievi diplomandi accanto ai loro compagni dei corsi inferiori, diretti nel primo da Mauro Simone e nell’altro dal maestro Saverio Marconi. Gli esiti sono stati sorprendentemente antitetici: Le Streghe di Eastwick un divertentissimo spettacolo pronto per essere inserito a pieno merito nel cartellone dei teatri regolari e non certo un saggio di fine corso; Big Fish invece è il primo caso in cui il sottoscritto ha visto un lavoro targato BSTM che non va oltre le caratteristiche di una pubblica prova scolastica.
Non sono riuscito a darmi una risposta esaustiva di tante differenze, perché gli elementi con cui gli spettacoli sono stati realizzati sono esattamente i medesimi… stessi gli interpreti, stessi i tecnici, stesso l’impegno e la cura nell’allestimento scenico.
L’unica ragione che ho saputo trovare è la profonda differenza sostanziale tra i due soggetti – brillante commedia satirica Le Streghe e dramma umano in forme grottesche Big Fish – argomenti antitetici con cui difficilmente giovani ragazzi possono confrontarsi con lo stesso atteggiamento e con gli stessi strumenti espressivi. Cercherò di dettagliare tale concetto via via che spiego le due diverse messe in scena.
Le Streghe di Eastwick è una produzione inglese targata Mackintosh nel 2000 che non ostante interpreti di gran richiamo risultò un mezzo flop nel West End, in Australia e in Brasile prima del modesto successo in Europa orientale e prima di diventare uno dei titoli più gettonati tra i saggi di fine anno delle accademie e tra le compagnie amatoriali di tutto il globo. Il libretto di John Dempsey si allontana tanto dall’originale best seller letterario di John Updike di cui mantiene episodi e personaggi di rilievo, ma si allontana anche dalla pellicola dell’87 di George Miller dove si ricorda uno scatenato e autoparodistico Jack Nicholson. L’accattivante score pop di John Dempsey risultava invece in debito esplicito verso le sonorità della classica commedia anni ’80 con eclettici ed eterogenei passaggi dal country al jazz/blues, dai ritmi sensuali alle più romantiche ballate slow.
Le principali differenze narrative si rilevano soprattutto nella seconda parte della vicenda, nel tentativo del matrimonio e nella semplificazione dei modi negli scontri fisici tra le tre protagoniste e il diabolico ospite della villa stregata. Già prima però si era assistito a importanti varianti come le ragioni del contrasto tra il satanico Daryl Van Horne e la formale e perbenista Felicia, custode e vestale delle vestigia storiche della cittadina di Eastwick; quali elementi del tutto innovativi emergono anche il rapporto extraconiugale tra Clyde, marito di quest’ultima nonché direttore del giornale locale, con la bionda redattrice Sukie, in aggiunta alla controversa love story tra l’unico figlio maschio di Alex e la figlia di Felicia, ma fondamentale diventa anche il tentativo finale di sedurre e sposare proprio questa ragazza da parte dell’affascinante demonio.
Per il resto i caratteri originali e le caratteristiche dei personaggi sono decisamente rispettati: Alex è la bruna scultrice e madre single, campionessa di casual sex; Jane è la rossa timida insegnante di musica che pratica l’astinenza sessuale mentre Sukie è la giornalista bionda dalla già citata relazione adulterina in corso. Quando viene evocato dai loro inconsapevoli poteri Daryl Van Horne, che è il diavolo in persona, fa leva sui loro specifici sogni professionali (la scultura di statue realistiche, la musica per strumenti ad arco e l’uso delle parole), sulle loro insicurezze infantili e sugli inconfessati impulsi sessuali fino a sedurle tutte e tre e soggiogarle al suo dominio al fine di aver un figlio da ciascuna di loro.
Alla fine il copione risulta decisamente agile e un po’ ruffiano nell’accattivarsi l’attenzione e le simpatie della platea, non certo un capolavoro memorabile ma un testo di assoluta capacità d’intrattenimento, leggero e funzionale nel tener desto l’interesse mentre incorpora in modo fluido i song e i numeri musicali.
Il regista Mauro Simone riesce a trattare questi materiali con grande levità e ironia, giocando fin dall’inizio con gli effetti horror, come in un tunnel del terrore da luna park musicale, dove si va per spaventarsi per finta e per ridere della propria non-paura. Come esempio del suo tocco così particolare basti citare l’esempio dell’inizio dello spettacolo quando, a sipario ancora chiuso e nel buio della sala, dai lati del sipario fa filtrare una solfurea luce purpurea anticipatrice delle atmosfere infernali che stanno per riversarsi dal palco sugli spettatori. E con lo stesso gusto va poi riempendo l’intero svolgersi dello show di mille particolari arguti, nella scenografia come nei costumi deliziosamente old fashion anni ’80. Sia che faccia ricorso a cambi scena di mirabile ritmo dinamico, sia che sfrutti l’apporto delle illusioni sceniche di Alessandro Bellotto, gioca con lo spettatore costantemente e onestamente allo scoperto (siamo in teatro, stiamo facendo teatro, usiamo gli strumenti e i trucchi del teatro) e nel suo far muovere gli oggetti autonomamente in scena (comicissimo il duetto degli strumenti ad arco!) o nel volo delle sue streghe sollevate sul palco da evidenti tiranti alla fine del primo atto, regala alla scena la forza della poesia e la verità surreale che solo una fantasia innocente può creare. In più ha saputo ben caratterizzare il contrasto tra le vicende dei singoli protagonisti in relazione all’atteggiamento della collettività del piccolo borgo dove il pepe della vita consiste nello spiare i vicini da dietro le tendine del tinello e/o nello spettegolare sui fatti altrui, sempre con la massima cura a mettersi in bella mostra in pubblico mentre si tiene nascosto l’armadio il proprio inconfessabile cadavere.
Quando nell’opening Eastwick Knows il regista porta in scena tutti gli abitanti del paese, caratterizzandone professioni, ruoli e atteggiamenti, ritrae assai bene quel tipo di psicologia collettiva, o quando nel numero Dance with the Devil il diabolico Daryl Van Horne insegna a tutti come godersi la vita in modo palese e naturale, ci fa percepire davvero il j’accuse di un Re che è nudo fuori da ipocrisie e falsi fariseismi. Per farlo usa sapientemente le luci, nel disegno di Emanuele Agliati, portando il senso dello spettacolo su un piano sufficientemente astratto da far risaltare al centro dell’attenzione i corpi, il sentire e le azioni dei personaggi; e così facendo risulta superfluo portare sul palco dispendiose e imponenti scenografie.
Lo si è detto più volte, e non solo da parte mia, che quando Mauro Simone dirige a low budget trova idee e soluzioni molto più vivaci e interessanti di quando si ritrova a lavorare in grandi e paludate produzioni nazionali e questo suo Streghe ne è solo l’ennesima conferma. Sono personalmente convinto che nei grandi teatri italiani riscuoterebbe assai più allori per questa sua regia di quanti ne ha di recente ricevuti per le avventure musicali di arcieri tardo-medioevali in calzamaglia.
Del resto va riconosciuto che lo spettacolo non avrebbe avuto la stessa fluidità, levità e ironia senza l’apporto di Gillian Bruce alle corografie. Da tempo non si sa più quanto gemelli siamesi siano Simone e la Bruce, ma è certo che nei loro spettacoli i due si integrano in modo indissociabile, con i numeri di danza che diventano parte integrale e fondanti della regia. In questo caso le coreografie diventano anche un vero controcanto (pubblico e collettivo) alle vicende personali delle tre streghe, simili nella funzione a un coro greco, ma che in più esprimono un carattere e una vitalità del tutto inediti e preziosi. Basti vedere (e apprezzare) l’originalità non prevista nell’originale di Dempsey-Rowe con cui la Bruce ha reinventato il numero Dirty Laundry. Grazie a un canzonatorio e trascinante momento di tap ne ribalta il concetto di panni sporchi che dovrebbero lavarsi in famiglia e che nella sua rilettura vengono invece lavati come provocazione alla collettività (e sulla pubblica piazza!). Non avendo avuto a disposizione ragazzi con un particolare talento per la danza, ha saputo però puntare sulla forza del loro insieme e così i passi basici loro proposti si sono trasformati in un numero di straordinario impatto emotivo e visivo.
In un disegno complessivo così forte gli allievi della Bernstein trovano la possibilità di proporsi al pubblico offrendosi nel magico binomio impegno-divertimento e quindi di trovare un maquillage ai propri naturali limiti espressivi (hanno tutti tra i 18 e i 24 anni!), soprattutto per quel che riguarda la recitazione. Sanno tenere bene i tempi della scena e riprodurre l’essenza delle battute… elemento fondamentale in una commedia brillante come questa, anche se ancora non sono padroni dell’autentico approfondimento psicologico del proprio personaggio e se ancora risuonano un po’ meccanici nella riproduzione delle intenzioni che hanno appreso.
Così Timothy Pagani, nel ruolo principale, si affida un po’ troppo alla sua baldanza e al suo indubbio aspetto fisico attraente. Può esibire la propria sfrontata sicurezza nell’ambiente scolastico ma deve tener conto che nel mondo professionale sarà circondato da colleghi anche più dotati di lui. Gli va comunque riconosciuta la maturità di aver condiviso queste sue caratteristiche naturali col demoniaco personaggio che ha portato in scena, avendo capito come e fino a che punto servirsene.
Delle tre protagoniste il ruolo forse più complesso lo ha dovuto affrontare Marianna Dalle Nogare come Sukie, figura che deve emanciparsi da amante insicura a donna padrona di sé, consapevole dei propri sentimenti più oscuri e artefice anche di malefici terribili. Accanto a lei Giulia Ercolessi è la più penalizzata nella parte anagraficamente più ardua dello spettacolo, madre single di un figlio 16enne, ma riesce a essere decisamente credibile, e non è un merito da poco. Di Eleonora Pace, infine, si può dire che il ruolo di Jane le permette più delle altre di giocarsi come caratterista a 360°, può contare su una verve comica preziosa per il suo futuro.
L’alchimia vocale, che è anche alchimia di temperamenti, tra le 3 ragazze è il risultato più difficile da ottenere, indispensabile per la piena riuscita dello spettacolo, e va dato merito a Shawna Farrell di aver operato un’eccellente scelta distributiva nell’abbinamento tra ruolo e capacità delle interpreti.
Se i talenti degli allievi della BSMT sono stati esaltati in Le Streghe lo stesso non è accaduto in Big Fish, lo si diceva più sopra. Le motivazioni che mi sono dato sono varie e di tipo differente, nessuna determinante in sé, ma nell’insieme ciascuna ha contribuito alla non-riuscita dello spettacolo.
Musical che, è bene ricordarlo, fu un vero flop con meno di 100 repliche quando venne allestito in dimensioni faraoniche a Broadway nel 2015 nonostante le credenziali del best seller letterario di Daniel Wallace (1988) e la versione cinematografica di Tim Burton (2003). E non valse a salvarlo neppure la partitura più pop composta da Andrew Lippa (da noi più noto come compositore di The Addams Family che non del magnifico The Wild Party… titolo per altro già allestito dalla BSMT… e forse anche da quel precedente deriva l’amore della scuola per questo autore).
La vicenda è organizzata in parallelo su due piani temporali: quello contemporaneo e quello del passato. Tra continui flashback e forward tra entrambi i piani temporali agiscono gli stessi personaggi in differenti età della loro vita. Nel tempo attuale il sessantenne Edward Bloom è in un letto d’ospedale e sta per morire di cancro, mentre suo figlio Will sta per diventare padre per la prima volta. Nel passato Edward è stato un vulcanico storyteller che incantava il piccolo Will con meravigliosi e fantasiosi racconti autobiografici in cui narrava di sirene, licantropi direttori di circhi, giganti e di streghe che gli rivelarono dentro un occhio fatato quale sarebbe stata la sua fine terrena. Tra le sue storie più ricorrenti c’erano anche la sua love story con Sandra, la madre di Willy, e la cattura di un leggendario pesce dalle enormi dimensioni da lui pescato proprio nel giorno della nascita di Will.
Le varie storie trovano una soluzione dei loro iperbolici intrecci proprio nel momento in cui Will scioglie l’unico e fondamentale segreto che il padre non gli ha mai confidato: la vicenda che vedeva davvero Edward operare da eroe nel salvataggio della propria cittadina natale. Prima che sia troppo tardi il figlio ripercorre ancora una volta tutti quei racconti affrontando di petto il padre; arriva a ripercorrere il passato con nuovi occhi e confrontandosi nel profondo col genitore scopre che costui non è affatto un eterno bambino incapace di affrontare la realtà e colpevole di averla sempre sfuggita attraverso il ricorso alle fiabe con cui l’ha rivestita, mentre sono profondi e pieni d’amore i misteri che legano lui stesso, il padre e la sua famiglia. Non a caso al funerale di Edward si palesano davvero tutti gli assurdi personaggi dei suoi aneddoti (o forse sono i partecipanti alle esequie a trasformarsi in quelle paradossali figure), per ultimo l’uomo più alto del mondo, il gigante Karl che a sua volta lancia cadere il proprio fiore sulla tomba dell’amico. Nel finale ritroviamo Will sulla riva dello stesso fiume del prologo mentre anche lui va raccontando al proprio figlioletto di nuovi meravigliosi accadimenti impossibili e di altre bizzarre creature.
Il copione, come si può ben intuire, è un insieme assai complesso di temi e intrecci paradossali rielaborati anche per il palcoscenico dallo stesso sceneggiatore del film del 2003, quel John August che rimane tra i più fedeli e costanti collaboratori di Tim Burton. Qui non si limita a porre in contrasto l’immanenza della realtà con la forza dell’immaginazione, ma azzarda il tentativo di porle su uno stesso piano comune in cui possono finalmente incontrarsi se non fondersi. In più in questo libretto troviamo un percorso difficile ma non impossibile di reciproca comprensione tra generazioni in cui il bisogno di superamento del complesso di Edipo gioca un ruolo primario (non a caso all’epoca del film Burton veniva dall’esperienza della perdita del padre proprio quando stava a sua volta provando l’esperienza della prima paternità) con implicazioni psicanalitiche non esplicitate, ma fondamentali, anche se trattate fuori dai dettami e dalle intuizioni freudiane.
Per non dire dell’intreccio tra valore dell’amore e dell’avventura, del passaggio tra vita e morte, dove la verifica del sé col mistero della fine dell’esistenza e l’assenza dei modelli con la M maiuscola sono le trabeazioni fondanti della narrazione. Si tratta di temi filosofici tutti di titanica valenza, non facili da restituire sul palco da parte di ragazzi tanto giovani come gli allievi della scuola che non possono aver ancor maturato un’adeguata esperienza umana (né tantomeno professionale) per averli coltivati in sé e per poterli affrontare e restituire con la necessaria consapevolezza.
Ecco a mio avviso uno dei principali motivi della mancata riuscita dello spettacolo. Dove anche una certa dose di realismo anagrafico diventa indispensabile con l’obbligo che gli interpreti abbiano un’età adeguata al proprio personaggio per rendere credibile agli occhi della platea gli accadimenti rappresentati.
Se in Le Streghe (come in tutti gli altri allestimenti della scuola) le doti attoriali degli allievi potevano anche supplire al gap, tanto più in questa assurda favola vera, dove tutto si tiene in precario equilibrio tra finzione e realtà, diventa impellente fornire allo spettatore dati credibili e inequivocabilmente realistici per restituire il senso del testo di John August. Trucco e parrucco non bastano a trasformare un ventenne in un quarantenne e ancor meno in un sessantenne con il risultato di percepire sul palco non i rapporti tra differenti generazioni, ma le relazioni tra evidenti coetanei in sembianze omologhe; così che quando lo stesso personaggio è in scena in età differenti, il pubblico spesso fatica a distinguerlo nell’una o nell’altra, e gran parte del senso narrativo va irrimediabilmente perduto.
In più allievi che non siano specificatamente cresciuti nel teatro di prosa (e un copione come questo sarebbe molto arduo anche per costoro) non potranno che cadere nelle trappole di una interpretazione meccanica e non partecipe che ne mette in evidenza non le doti ma i limiti espressivi. A ciò si aggiunga che la regia di Saverio Marconi non li ha sostenuti a sufficienza in un lavoro così grottesco, ricco di tante implicazioni e complicazioni.
Si sa che il maestro marchigiano è da sempre innamoratissimo del film di Burton, tanto da abbandonare sovente lo standard del musical di Broadway per integrare il suo spettacolo con scene, dialoghi e situazioni ripresi direttamente dalla pellicola, e lo fa nello stile minimalista messo in atto negli ultimi tempi con risultati di altissimo livello (Cabaret piuttosto che la Bernarda Alba presentata al Summer Musical Festival dello scorso anno). La sensazione che ne ho derivata (ma parlo di una sensazione del tutto soggettiva) è stata che questa volta non si sia messo al servizio degli allievi della BSMT, ma li abbia in qualche modo piegati a un proprio personale progetto registico di difficile realizzazione al di fuori dalla situazione protetta di una scuola. E’ il suo disegno complessivo a portarmi verso tale pensiero.
Nell’idea scenografica pensata da Federica Piergiacomi e Gabriele Moresco ha voluto una serie di astratti pannelli rettangolari di differenti proporzioni che nell’assemblaggio finiscono per riprodurre una sorta di palcoscenico al centro del palcoscenico, con tanto di pannello principale che si alza e abbassa proprio come un sipario. Ne risulta un effetto metateatrale di straniamento fatto per allontanare il senso più favolistico e romantico del musical di Lippa-August come a cercare in quella parabola la conferma di una sua personale disillusione sulla realtà contemporanea. Nello scontro tra concretezza e fantasia Marconi fa soccombere questa e anche quando la pone in primo piano, davanti al teatro di pannelli, è al colore livido della scena che attribuisce il predominio con i mille barbagli degli immaginifici costumi di Fabio Cicolani e Silvia Cerpolini ben presto fagocitati dall’amaro retrostante. Il disegno luci di Emanuele Agliati sottolinea assai compiutamente l’esito nefasto di tale conflitto.
La regia rifugge programmaticamente dagli stupefacenti aspetti kolossal della messa in scena di Broadway dove si vedevano elefanti e voli sul palco e va perfino oltre alla lettura londinese dell’ultima stagione dove l’ambientazione ricordava da vicino gli ambienti di una clinica psichiatrica, e nella sua studiata essenzialità dà mostra di una disillusione cosmica superiore al misantropo molieriano.
Se ragazzi e ragazze ventenni fanno fatica a seguirlo nel suo disincanto sono più che giustificati e mi pare che anche in ciò sia da riconoscere una delle cause della loro défaillance di interpreti. Con professionisti già formati Marconi avrebbe forse firmato uno dei suoi lavori più interessanti, organizzato su contraddittori visivi e tematici dalla logica più che ferrea, ma proporlo ad allievi diplomandi è stato forse pretendere troppo dalle loro attuali capacità.
Lo spettacolo vive comunque di momenti assai felici come nel caso dell’opening dell’Alabama Stomp o nel numero coreografico della strega (Nadia Scherani ne è l’ottima artefice, come di tutti gli altri momenti di danza) e assai convincente risulta la resa dei singoli song solo apparentemente easy (Shawna Farrel si riconferma in ciò maestra dalle doti eccezionali).
Resto del parere personale che a determinare la mia delusione per la serata sia stata la scelta di un titolo non adeguato alle attitudini e ai talenti di questi specifici allievi, ma va anche detto che un errore di valutazione in un 25 di attività della BSMT ci può anche stare.
E conto in un felice prossimo riscatto degli stessi nel West Side Story al Teatro Comunale dall’11 al 17 luglio.