Cast di prima categoria capitanato da Giampiero Ingrassia e qualità targata Rancia per il Cabaret della maturità di Saverio Marconi.
di Ilaria Faraoni – foto di Giulia Marangoni – foto di Giampiero Ingrassia con Saverio Marconi di Iwan Palombi
La Compagnia della Rancia è la Compagnia della Rancia. Può sembrare un’affermazione ovvia ma non lo è, almeno nelle intenzioni. Quando si assiste ad un suo spettacolo c’è come un’aura, un’atmosfera, un elemento che non si può toccare ma che si avverte nell’aria e che fa immediatamente riconoscere la provenienza di quel lavoro, ne fa leggere subito la firma. Si potrebbe parlare di qualità, ma definire in modo preciso la sensazione che si prova appena si apre il sipario di uno spettacolo della Rancia sarebbe riduttivo e ognuno può trovare in sé gli elementi che concorrono a creare questa percezione.
Nel caso specifico di Cabaret, che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Brancaccio di Roma dopo un’anteprima estiva al Festival di Todi, la sensazione sopra descritta si prova già prima dell’inizio dello spettacolo, grazie alla scenografia a vista di Gabriele Moreschi e dello stesso Saverio Marconi, che firma anche regia e adattamento.
La cosa da mettere subito in evidenza è che chi crede di conoscere già il Cabaret della Rancia dalle due precedenti edizioni, si sbaglia. La versione 2015 proposta da Marconi del musical di Joe Masteroff con le musiche di John Kander e le liriche di Fred Ebb è un altro spettacolo.
Il primo allestimento, come ha spiegato il regista stesso in conferenza stampa (leggere QUI), era più legato al film di Bob Fosse con la Minnelli, il secondo era più glamour: questo, che viene dalla maturità di Marconi, è stato definito da lui stesso più intenso. Ed intenso è proprio l’aggettivo che per primo viene in mente se si ripensa allo spettacolo in questione.
La decadenza che vuole raccontare è evidente in ogni scena, già da quel logo luminoso del Cabaret che cade proprio al principio e che rimane appeso ad un filo, girato di 90 gradi, fino alla fine.
Perché la storia, per chi non la conoscesse, parla dell’ascesa del nazismo in Germania e di come ciò si intrecci alle vite dei protagonisti, che ruotano tutte intorno al Kit Kat Klub (locale di bassa lega nel quale ciò che conta è solo il divertimento, per lo più a sfondo sessuale) e alla pensione dell’affittacamere Fräulein Schneider. Stella del Kit Kat è Sally Bowles, che aspira a diventare più di una star del cinema (“un pianeta” per usare le sue parole); l’anima del Cabaret è invece il Maestro di Cerimonie (chiamato per abbreviazione anche MC o emcee), che guida il gioco fino alla fine, ed il gioco è il fare finta che la vita sia quella che si “vive” nel locale, dove i problemi vengono messi al bando. È questo infatti il centro del lavoro: una spietata analisi delle conseguenze derivanti dal voler fare gli struzzi nascondendo la testa sotto la sabbia. Il messaggio purtroppo è attuale e niente sembra mutato da allora. Nello spettacolo si parla della Berlino degli anni Trenta, ma la situazione potrebbe benissimo essere trasportata ai giorni nostri. Cambiano i luoghi, le dittature, cambia il pericolo che ci minaccia di volta in volta, non cambiano gli atteggiamenti degli uomini. Forse anche per questo i costumi di Carla Accoramboni (soprattutto quelli delle ragazze e dei boys del Kit Kat) hanno elementi che riportano senza dubbio agli anni Trenta ma rispondono ad una visione generale che fa pensare molto alla contemporaneità con qualche tocco stile militare per gli uomini, tanto per rimandare al clima in cui si svolge la storia.
Geniale è l’espediente scenografico con cui è gestito il passaggio dal Cabaret alla pensione dove vivono o agiscono tutti i protagonisti e viceversa: un telone drappeggiato (usato molto anche come elemento coreografico) che cala o si alza per definire i due luoghi. Questi non sono solo fisici ma, come detto in precedenza, possono anche considerarsi simbolici. Sono il luogo della vita volutamente superficiale e lasciva, di comodo, dentro cui nascondersi e quello della vita vera. Geniale che sia semplicemente un telo a dividere i due spazi perché è come voler evidenziare la labilità del nascondiglio. Si può scappare dai problemi cercando di ignorarli ma questi sono celati solo da un velo: ci aspetteranno e ci afferreranno, poco ma sicuro.
Un grande contributo per la creazione di quel clima decadente e attanagliato dall’assenza di gioia vera è dato dal disegno luci del sempre apprezzato Valerio Tiberi, premiato anche agli ultimi Oscar italiani del musical per Frankenstein Junior.
Le coreografie di Gillian Bruce rimandano in modo insistente (forse un po’ troppo, less is more, come si suol dire) all’aspetto più degradato e licenzioso di quel certo tipo di Cabaret che ha voluto descrivere Christopher Isherwood nel suo libro Goodbye to Berlin (Addio a Berlino), che prende spunto dall’esperienza realmente vissuta dall’autore nella città tedesca e che è stato la fonte di ispirazione per le successive trasposizioni: dal primo spettacolo per il teatro I am a camera alle successive versioni musical passando attraverso il film del 1955 ed il film cult del 1972 con Liza Minnelli, abbastanza diverso, in parte della trama, dal musical teatrale che conosciamo. C’è da notare poi, per chi voglia approfondire l’argomento, la differenza tra un certo tipo di Cabaret descritto da Isherwood e il Kabarett di satira anche politica di tutt’altra levatura (è interessante in tal senso il sito http://www.kabarett.it/kabarett/).
Molto apprezzate alcune soluzioni coreografiche, come l’uso dei tamburelli nel celeberrimo numero Money, o il ritmo battuto con forza con i piedi che, oltre a dare gli accenti giusti nei punti chiave dei numeri musicali, coinvolge in modo efficace. Un accenno quasi impercettibile ad una marcia militare (che riprende l’idea dei costumi di cui si parlava più su) potrebbe essere emblematico: al Kit Kat si nega il contesto storico ma questo, malgrado tutto, riesce ad insinuarsi più o meno inconsapevolmente anche all’interno del regno del divertimento effimero.
Il cast è straordinario e, per quanto riguarda i ruoli, è ripreso quasi interamente dal vittorioso Frankenstein Junior: la scelta era già vincente sulla carta, anche se tra l’immaginare ed il vedere concretamente sul palco, il risultato è sempre sorprendente. Stiamo parlando di alcuni tra i migliori performers sulla piazza, artisti formidabili capitanati da un Giampiero Ingrassia sempre perfetto, sempre entusiasmante, sempre grandissimo padrone della scena. Il trucco facciale, da lui stesso definito un mix tra il Joker di Batman e Il corvo (e si potrebbe aggiungere anche un vaghissimo ricordo di Buster Keaton, ma questa è una sensazione molto personale) contribuisce a collocare immediatamente il Maestro delle Cerimonie nel suo ruolo: una sorta di giullare dark, ambiguo; un conduttore che accompagna il pubblico del Cabaret (quello della finzione) nella perdizione dell’incoscienza e che serve invece di monito al pubblico (quello vero) per far sì che rifletta e prenda in mano la sua vita. Il trucco però non impedisce di gustare ogni singola espressione di Ingrassia, che come già scritto in occasione di altri spettacoli, è uno di quegli artisti cui basta uno sguardo, un movimento degli occhi per comunicare fino alle ultime file del teatro. In più Ingrassia è altrettanto forte con il linguaggio del corpo e qui lo vediamo muoversi nei numeri del Kit Kat con grande efficacia. Torna poi l’aggettivo identificativo di questa edizione di Cabaret: intenso. Anche ad un personaggio come il Maestro di Cerimonie, infatti, spettano dei momenti più intimi, spesso volutamente dissonanti rispetto al contesto mostrato contemporaneamente, durante i quali l’emcee squarcia in qualche modo, virtualmente, quel telone che separa le due realtà e Giampiero riesce a tenere tutto il pubblico avvinto a sé.
Giulia Ottonello è una Sally Bowles lontana dall’idea che se ne ha, volenti o nolenti, per l’interpretazione di Liza Minnelli, ma questo va tutto a suo favore, perché una replica di qualcosa di già visto non è mai auspicabile. Grazie alle doti della Ottonello, Sally acquista tante altre sfaccettature, anche brillanti e si sa che Giulia è un fenomeno nel trasmettere emozioni forti tanto quanto nel far ridere con la sua vis comica. Tutto il suo personaggio esplode poi nel numero clou, la canzone del titolo, e qui l’applauso va sia all’interpretazione della Ottonello sia all’impostazione registica del momento chiave per capire davvero Sally. È come se tutto il suo dramma, il tormento, le aspirazioni fallite, i rimorsi, la ricerca di leggerezza contro ogni ragionevole evidenza, venissero concentrati e liberati nel brano, che culmina oltretutto con la scoperta finale della svastica da parte di una sofferente Sally malferma, che si regge a stento sulle gambe prima di cadere a terra, svenuta. E ancora una volta tornano le dissonanze, i temi che volutamente stridono: le parole della canzone da una parte, lo stato emotivo di Sally dall’altra, il simbolo nazista a concludere.
Mauro Simone è Cliff Bradshaw, lo scrittore con i cui occhi è vista tutta la storia. Il suo personaggio è una sorta di raccordo tra i due mondi, ed è grazie a Cliff che il messaggio di denuncia contro il nazismo è più evidente (a differenza del film). Simone come sempre è bravissimo a dare ai suoi personaggi tutte le diverse sfaccettature richieste: comunica grande dolcezza prima, poi l’ignavia nello svolgere le missioni che gli vengono affidate dall’amico Ernst, infine il risveglio e la ribellione al nascente regime. Tra tutti i personaggi di Cabaret, quello di Cliff è il più “normale”, il meno caratterizzato o sopra le righe, quindi è ancora più difficile sostenerlo senza venire oscurato dagli altri e Mauro Simone ci riesce alla grande.
Altea Russo è un’altra certezza. Qui è Fräulein Schneider, l’affittacamere, e chi cerchi il suo corrispettivo nel film non lo troverà perché nella pellicola non esiste. Artista completa, Altea ha già al suo attivo anche diversi ruoli da caratterista: in Cabaret il suo personaggio, a parte il divertente pezzo sull’ananas e alcune situazioni iniziali più brillanti, va in crescendo fino a diventare drammatico, dando modo al pubblico di apprezzare ancora di più, se possibile, la Russo. Il monologo disincantato che riassume la vita di Schneider e la sua capacità di rimanere a galla in ogni situazione, a discapito però della sua felicità, tocca la sensibilità degli spettatori grazie alle corde profonde che riesce a far vibrare Altea.
Il suo partner scenico, Michele Renzullo (uno dei fondatori della Rancia nonché, in questo caso, autore della traduzione e produttore esecutivo) è colui che porta in Cabaret il tema della discriminazione e successiva persecuzione degli ebrei. È disarmante la tenerezza che Renzullo riesce a dare al suo Herr Schultz, riuscendo a far provare compassione vera, nel senso di “patire con”, per il buon commerciante di frutta.
Valentina Gullace è la libertina Kost una delle ragazze del Kit Kat. È incredibile veder spaziare questa artista da ruoli “angelici” a ruoli così carnali con la stessa credibilità e capacità. Cosa si può dire se non che la Gullace è bravissima e incisiva in ogni ruolo? Recente è la sua vittoria nella categoria Miglior attrice non protagonista, agli OIM (i già citati Oscar italiani del musical) per la sua Inga in Frankenstein Junior.
Chiude il cast di ruoli Alessandro Di Giulio, molto convincente nell’ambiguità e spietatezza dell’attivista nazista Ernst Ludwig da lui proposto.
L’ensemble annovera tanti artisti conosciuti e apprezzati nell’ambiente musical; in ordine alfabetico: Marta Belloni, Gianluca Pilla, Nadia Scherani, Ilaria Suss e Andrea Verzicco.
Il finale dello spettacolo (qui non sveliamo la soluzione adottata) è di grande forza visiva ed emotiva e rende concreto e tangibile il messaggio che aleggia durante tutta la storia. Non si poteva proporre una conclusione migliore. Anche i saluti, in assenza totale di musica, sono il giusto tramite tra la forte emozione ed il ritorno alla realtà.
Per le musiche, si ricordi l’ottimo lavoro di Riccardo di Paola (direzione musicale) e di Marco Iacomelli (supervisione musicale). Il disegno fonico è di Enrico Porcelli.
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