MY FAVOURITE THINGS
di Ilaria Faraoni
Titolo: Sunset Boulevard
Primo debutto della versione teatrale definitiva (dopo una performance nel 1992 al Sydmonton Festival): 12 luglio 1993 all’Adelphi Theatre di Londra
Musiche: Andrew Lloyd Webber – Testi e liriche: Don Black, Christopher Hampton – Tratto dal film omonimo della Paramount diretto da Billy Wilder e scritto da Wilder stesso con Charles Brackett e D.M. Marshman Jr (1950) – Regia originale del 1993: Trevor Nunn – Coreografie originali del 1993: Bob Avian.
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TRAMA
La storia si apre con la fine. Lo squattrinato scrittore di cinema Joe Gillis è stato ucciso, il suo corpo giace senza vita nella piscina di una villa hollywoodiana in Sunset Boulevard. È lo stesso Gillis a raccontare, da morto, in un lungo flashback, la vicenda. Per sfuggire ai creditori che lo inseguono per pignorargli l’automobile, la sua unica ricchezza, dopo l’ennesimo copione rifiutato dalla Paramount, Gillis scappa e si nasconde in una villa semi abbandonata. Accolto da un inquietante maggiordomo, Max, che lo scambia per il becchino che la padrona sta attendendo per rendere l’ultimo tributo alla sua scimmietta domestica, viene introdotto in casa e fa la conoscenza di Norma Desmond, grande diva del muto ormai dimenticata e “vecchia” che continua a vivere alienata dal mondo, nel mito di quello che è stata. La donna, scoperto l’equivoco, lo obbliga a rimanere per correggere l’improponibile e voluminoso copione con il quale mira al gran rientro sulle scene: Salomè. L’attrice spera nell’interessamento di Cecil DeMille, il grande regista di cui sostiene essere stata l’attrice favorita. Presto Gillis sarà fagocitato dalla donna che lo renderà un mantenuto, fin quando Joe non si innamora di Betty – addetta alla lettura dei copioni per la Paramount – con la quale sta scrivendo, di nascosto da Norma, una sceneggiatura per un film.
Tra colpi di scena grazie ai quali si svelerà che il maggiordomo è stato uno dei registi che ha reso grande Norma, nonché il suo primo marito, la situazione precipiterà fino a quando la diva, ormai completamente folle, non ucciderà Gillis che la sta abbandonando dopo aver rinunciato anche all’amore di Betty.
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CURIOSITÀ
- Nella storia dello spettacolo teatrale grandi nomi si sono avvicendati nel ruolo di Norma Desmond; per citarne solo alcuni: Patti LuPone (che aprì la primissima edizione londinese) Betty Buckley, Petula Clark, Glenn Close, Elaine Paige, Kathryn Evans. Tra i Joe Gillis: Kevin Anderson, Alan Campbell, Michael Ball, John Barrowman, Hugh Jackman. Per Max von Mayerling ricordiamo Daniel Benzali, George Hearn, Dave Willetts.
- Per la versione di Los Angeles, 1993, Webber rimaneggiò libretto e musica e fu aggiunta la canzone “Every movie’s a circus”
- Norma Desmond invia il suo copione a Cecil DeMille e, non ricevendo risposta personale va a parlargli su un set della Paramount. DeMille (che nel film è interpretato da DeMille stesso) aveva realmente diretto numerosi film con Gloria Swanson, la Norma Desmond cinematografica.
- Nella scena del film in cui Norma Desmond gioca a carte con alcuni amici attori, i ruoli sono interpretati da altrettanti importanti attori del cinema muto tra i quali spicca Buster Keaton
- Nel film il maggiordomo/regista/ex marito di Norma è interpretato da un grande regista del muto: Erich von Stroheim, che, nel 1928, aveva diretto per davvero Gloria Swanson in un film, La regina Kelly (Queen Kelly), ma era stato licenziato senza poterlo portare a termine proprio dalla Swanson, che ne era anche produttrice. Von Stroheim, nella sua carriera, ebbe infatti numerosi problemi per la sua pignoleria e la sua ricerca di grandezza che comportavano tempi troppo lunghi di lavorazione ed enorme dispendio economico.
- Già Gloria Swanson, dopo il film, voleva fare di Sunset Boulevard un musical, ma la Paramount, che a quanto pare le aveva accordato il permesso solo verbalmente, tramite avvocato glielo negò.
[divider] N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.
http://www.mediterrarea.com/chi-siamo/luca-notari
Luca, perché hai scelto Sunset Boulevard?
Perché mi riporta esattamente al 1996 quando provai l’esame di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia e portai una tesi su Viale del Tramonto di Billy Wilder, quindi c’è stato subito un attaccamento particolare a questo film: è strepitoso, meraviglioso, uno dei più belli della storia del cinema, una pietra miliare. Di conseguenza ho conosciuto il musical e me ne sono innamorato. Forse è stato il primo che io abbia mai ascoltato, sono cresciuto grazie a Sunset Boulevard e quindi la scelta è ricaduta su questo titolo anche per affetto.
Il film si può definire un noir, il musical perde un po’ di quella atmosfera, secondo te?
Il musical a livello di storybook, di libretto, ricalca esattamente la sceneggiatura del film, quindi se vogliamo lo si può definire un musical dark o comunque noir, anche se l’atmosfera musicale è molto varia, dallo swing al sinfonico, al tango: ci sono tanti momenti musicali e quindi questa caratteristica è un po’ lasciata andare. Del resto il film ha quel bianco e nero, quelle luci pensate in un certo modo per dare l’impressione della decadenza; ci fu uno studio enorme alle spalle per dare quella idea di noir, anche se Billy Wilder non era un amante di questa definizione. Per dare l’idea della grande ricchezza e dello sfarzo decadenti usarono diverse tecniche: per fare delle riprese grattarono anche – se non sbaglio – con della pietra pomice sulle telecamere. Il musical è uno dei più ricchi al mondo, è molto sfarzoso e proprio per i costi esorbitanti ha avuto vita difficilissima: quell’atmosfera la dà, ma trovi anche tanto altro.
Il punto di forza del musical? Cosa lo differenzia maggiormente dal film?
Il musical ovviamente ha dei linguaggi diversi quindi la differenza principale è proprio la musica che Andrew Loyd Webber ha composto e che è assolutamente drammaturgica: in tutti i passaggi è descrittiva di un accadimento. Webber è geniale, perché usa sì un linguaggio che è tipico webberiano, ma ricorda se vuoi il melodramma italiano. Poi qui ci sono dei riferimenti allo swing, agli anni ’40 e ’50: c’è uno studio ben preciso sia nella composizione, sia nell’arrangiamento, con un’attenzione particolare a tutto quello che il film suggerisce. La musica di Webber descrive l’azione passo per passo, porta lo spettatore dentro la storia. Per esempio, trovo meraviglioso che Norma Desmond stia scrivendo un copione su Salomè e che Webber faccia cantare a Max von Mayerling – che è il suo pigmalione, divenuto poi il suo maggiordomo – “The greatest star of all”, un’aria meravigliosa, con delle sonorità ed una melodia arabeggianti, che ti riporta subito a quel mondo, al mondo di Salomè. Intuizioni come quella di usare una scala araba nella composizione di questo brano, che poi è uno dei temi principali dello spettacolo, trovo siano geniali e rendano tutto molto più vero: è la verità che trovi in quello che scrive Webber.
Lo spettacolo viene da una sceneggiatura e da un film che sono perfetti e quindi se vuoi è semplice, ma difficilissimo allo stesso tempo, portarlo allo stesso livello: valorizzare e non distruggere la pellicola non è facile. La forza, la bravura e la genialità di Webber sono state nel rispettare il capolavoro di Wilder. Da dove attingere? Noi abbiamo il melodramma e questo è un melodramma, è una storia bellissima che, portata in teatro, ha il suo grandissimo fascino come quello delle grandi storie che appartengono alla cultura dell’opera lirica. Già altri volevano musicarlo: Sondheim e prima di lui addirittura Gloria Swanson, la protagonista del film, aveva chiesto alla Paramount di poterne fare uno spettacolo musicale che poi non s’è più fatto. Dopo tanti anni è arrivato Webber… Per il mio gusto, il musical è allo stesso livello del film, niente è lasciato al caso: stiamo parlando quasi della perfezione!
Vuoi approfondire qualche altra canzone in particolare?
Sono tutte bellissime, da “With one look” a “As If We Never Said Goodbye” (estratti da The Royal Albert Hall Celebration) a “Sunset Boulevard” al duetto tra Joe e Betty. Per esempio prendiamo “With one look” (estratto dallo spettacolo): cosa succede? Succede che Webber usa la melodia e la tradizione melodica per far arrivare un’emozione, per descrivere il personaggio di Norma Desmond, che vive esclusivamente in quel mondo un po’ chiuso, un po’ ovattato che era quello del cinema muto. Come dicevo è tutto ben scritto, ben definito, ben studiato anche nell’arrangiamento. Con l’ouverture, sulle note che poi saranno di “The greatest star of all”, inizi già a immaginare che ambientazione, anche musicale, ci sarà: ci sono quegli archi, nella parte delle sonorità medio basse, che ti portano subito in un ambiente noir e decadente, poi all’improvviso parte il racconto della storia con lo swing di “Let’s have lunch”, con rimandi alla musica degli anni ’50, il periodo in cui è ambientata la storia; ti spiazza! La genialità è proprio questa: non sai mai dove si andrà a finire, non c’è una monotonia compositiva che ti possa stancare, come accade a volte. Sunset Boulevard è proprio come un’opera lirica e Webber ha tutte le dinamiche compositive di un grande autore del melodramma: grazie alla sua musica riusciamo a seguire la storia senza perdere la bellezza della parola e delle emozioni proprie del film di Wilder (QUI un video con gli highlights della versione con Glenn Close, Alan Campbell e George Hearn).
Anche nella scelta delle voci per i vari personaggi c’è il riferimento al melodramma, all’opera lirica: ogni ruolo ha una caratteristica vocale ben precisa. Per esempio il maggiordomo, Max von Mayerling, è un baritono; il protagonista, l’eroe tra virgolette, è un tenore, anche se qui è un eroe un po’ nero, quindi è un baritono-tenore, per dare una sonorità un po’ più scura alla voce, una connotazione un po’ più inquietante. Poi c’è Norma Desmond, che non è un’eroina positiva: essendo un personaggio scuro, non cristallino, è un mezzo soprano, mentre Betty Schaefer è un soprano: la giovinezza, la semplicità della ragazza, il suo spirito puro sono rappresentati da una voce un po’ più chiara, quella di un soprano appunto; magari anche un soprano leggero. Come nell’opera ogni ruolo ha una connotazione timbrica ben precisa. Il cattivo, per esempio, generalmente è un basso. Un altro esempio di questa concezione lo troviamo in Les Misérables di Schönberg e Boublil.
Guardando il percorso di Webber a partire da Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat si nota sempre di più l’avvicinamento al melodramma. È un melodico nella composizione, quindi anche quando scrive le parti recitative strizza sempre l’occhio ad una melodia accattivante che ti rimane; non è un Sondheim, per esempio, che nella scrittura è molto, tra virgolette, visionario. Webber è descrittivo, fa della melodia il punto di forza della composizione.
Nel musical si sono succeduti grandissimi interpreti. La tua versione di riferimento qual è?
Quella del cuore per me, senza con questo nulla togliere agli straordinari interpreti che si sono succeduti, è legata ad una delle più grandi attrici viventi: Glenn Close! Sono molto legato a quella versione, anche se purtroppo non ho avuto la fortuna di vederla in teatro. L’unica versione che ho visto dal vivo è stata quella a Londra nel 2009: una versione ridotta dove gli interpreti erano gli stessi musicisti dello spettacolo, tranne l’interprete di Norma Desmond. Un’edizione un po’ in stile Company, di grande effetto, non così maestosa come poteva essere la versione originale, però secondo me di grande genialità: suonavano, cantavano, recitavano e ballavano; vedevi questi musicisti che con il violoncello, con il flauto, con i violini giravano per il palcoscenico e facevano tutti i numeri dello spettacolo.
Apriamo una parentesi sulle varie edizioni, forme concerto e così via: si deve comunque rispettare l’idea originale di partitura, per questo sono stati fatti diversi arrangiamenti per diverse formazioni senza togliere, anche nella versione più piccola, niente di quello che è l’atmosfera che Webber ha creato: anche questo è un lavoro interessante. Con l’arrangiamento si devono mantenere intatte le idee originali del compositore, dell’autore del testo, dello sceneggiatore.
A questo proposito, forse a volte ci sono paletti troppo esagerati, quando si comprano i diritti? Anche se il rischio che uno spettacolo venga poi snaturato è molto forte…
È vero che certe cose possono essere esagerate, però credo anche che fare un certo tipo di musical presupponga un certo tipo di investimento produttivo, una certa propensione e predisposizione: non è una cosa che possono fare tutti, così come l’opera lirica non la possono cantare tutti, né tutti possono produrla o comporla, perché richiede un certo tipo di preparazione, di attitudine e di sensibilità; quindi è giusto che ci siano certe regole. Siamo in un momento di crisi quindi è meglio non investire se non se ne hanno le possibilità, o investire in cose piccole. Perciò anche quando si vanno a fare le audizioni è sempre bene sapere quale sia la produzione, chi siano gli autori ed il regista, altrimenti poi alla fine di tutto si torna sempre al discorso delle paghe inesistenti e via dicendo…
Tornando a Glenn Close: nella scena finale, per esempio, è di una bravura imbarazzante! Norma è completamente in trance, ha appena ucciso Joe Gillis e arrivano tutti i fotoreporter e la polizia: lei li scambia per gli operatori della ripresa cinematografica – è geniale come soggetto – ed è come se l’azione fosse all’interno del film che lei immagina di girare. L’interpretazione di Glenn Close è strepitosa, sublime. E Webber cosa fa in tutto ciò? Ancora una volta è geniale perché in questa parte finale usa tutti i leitmotiv del musical.
E ripeto: per me Glenn Close è insuperabile, magari vocalmente non è perfetta, però è esattamente quel personaggio! Anzi: fa anche uno studio vocale sulle sonorità della voce che ricordano molto gli anni ’30, che ricordano molto un certo tipo di emissione vocale di quel periodo storico e questa cosa mi è sempre piaciuta molto. Non so se sia vero questo aneddoto, ma si dice che Glenn Close si fosse presentata a Webber dicendo: “Voglio fare il tuo spettacolo” e che Webber le avesse risposto che non era adatta perché non era una cantante. Lei avrebbe risposto: “Dammi tempo un anno, tra un anno mi giudicherai”. Sappiamo tutti com’è andata a finire: non solo ha interpretato Norma Desmond, ma ha vinto anche il Tony Award. Stiamo parlando di una delle più grandi interpreti in assoluto, non è una semplice attrice, il termine attrice è riduttivo: è un’interprete in senso ampio. L’interprete deve usare la voce in qualsiasi modo, che sia cantata, che sia parola o che sia suono e Glenn Close emette anche molti suoni: i pianti, le urla… Tutti questi suoni sono dettati da un sentimento e da una sensibilità che vanno oltre l’attorialità, vanno oltre l’essere una brava cantante. Lei è incredibile perché non ti accorgi del canto o della musica, questi elementi vanno totalmente in secondo piano, te li fa dimenticare, ti fa vivere il personaggio. Lei è Norma Desmond. Quelle arie sembrano scritte per il suo tipo di voce, per lei. Anche la Streisand, per esempio, ha cantato “With one look” e “As if we never said goodbye” in modo sublime, ma le canzoni secondo me non hanno lo stesso fascino. Prese di per sé, come hit, devono essere cantate così come fanno la Streisand o Betty Buckley… ma in teatro, dove devi essere un personaggio, devi interpretarle per forza come fa Glenn Close.
Quando un attore fa dimenticare al pubblico chi è e tu credi che sia davvero quel personaggio…
Esatto. Stavo riguardando alcuni video e mi dicevo: è impressionante come in teatro Glenn Close renda una interpretazione cinematografica. In teatro di solito è tutto molto più esagerato, molto più esteriore, per arrivare al pubblico… no! Lei è esattamente Norma Desmond. Per me è l’interprete irraggiungibile per questo spettacolo. Poi ovviamente tutte, anzi tutti, anche i vari Joe Gillis e Max von Mayerling, sono stati grandi, grandi, grandi interpreti, però è indubbia la qualità di Glenn Close.
Il film vive anche di tante citazioni: Cecile DeMille che interpreta se stesso, grandi protagonisti del muto Buster Keaton, Anna Q. Nilsson, H.B. Warner che interpretano altrettanti divi decaduti nella partita a carte con Norma…
Sì, lo stesso Max è interpretato da Erich von Stroheim, il grandissimo regista che aveva davvero lavorato con Gloria Swanson. È una storia, riportata sullo schermo, che veramente è appartenuta a molti divi del cinema muto e questo mi ha fatto simpatia, se vuoi, perché il primo grande spettacolo che ho fatto è stato Ritratto di un divo (con Massimo Ranieri) che rappresentava la vita di un grande divo del cinema muto, John Gilbert che, con l’avvento del sonoro, visse una storia simile a quella di Norma Desmond. Perciò anche questo particolare mi avvicina tanto a Sunset Boulevard: mi fa ricordare uno degli spettacoli a cui sono più legato e con il quale trovo tante analogie.
Nel film è il cinema che fa autocritica, nel musical è il teatro che si assume il ruolo di critica verso il cinema… sono due punti di vista molto diversi con forze diverse…
Non so se Wilder volesse fare proprio una critica al cinema, secondo me ha semplicemente raccontato una storia. Quanti attori del cinema che erano considerati dei miti, dei miti veri – non come quelli di oggi – hanno avuto storie simili? Nel film Max dice che un Maharaja si è addirittura strozzato con una calza di Norma Desmond: erano cose che accadevano veramente. Wilder ha voluto raccontare una storia; una storia che, tra l’altro ha vinto tantissimi premi e ha collezionato numerosissime nomination. Ovviamente è molto più forte la critica del cinema al cinema rispetto a quella che può fare il teatro. È vero che il teatro è uno specchio della società ed è sempre stato usato anche nell’antichità per deridere o raccontare dei fatti realmente accaduti, quindi sì: il teatro ha una forza culturale, ma in questo caso non so… Anche qui Webber ha voluto secondo me riportare in musica questo soggetto meraviglioso senza alcun tipo di pensiero critico o altro.
Gloria Swanson, grande diva del muto, ha rappresentato una storia che le apparteneva: all’epoca di Viale del Tramonto, in 15 anni, era riuscita a girare un solo film. Le interpreti teatrali si sono dovute calare invece in un mondo che era molto lontano dal loro vissuto…
Assolutamente vero. Molte attrici rifiutarono il film perché avrebbero messo in ridicolo la loro carriera. Il film in quegli anni creò veramente scalpore. Il musical secondo me no, perché ha messo semplicemente in musica questo soggetto, oltretutto con un dispendio economico incredibile, una realizzazione da opera lirica, con la macchina che entrava in scena, con quel salone sfarzoso… è tutto mastodontico, quindi se avessero voluto fare una critica ad un certo tipo di cinema, al divismo, avrebbero fatto un allestimento diverso.
La critica, sia nel film, sia nel musical, è border line, credo. Anche il personaggio di DeMille non ne esce benissimo, secondo me.
Certo, se noi analizziamo il soggetto troviamo tutte queste cose. Quando Norma Desmond dice che non sarebbero esistiti gli studi Paramount se non ci fosse stata lei è, seppur nella finzione, vero: il cinema lo hanno fatto gli attori, i grandi registi, i grandi autori. L’industria cinematografica deve loro molto. La gente andava al cinema a vedere i suoi miti: Greta Garbo, John Gilbert, Gloria Swanson, Buster Keaton, Rodolfo Valentino e tutti gli altri grandi divi. Poi tanti, con l’avvento del sonoro, sono decaduti, sono stati dimenticati e nel raccontare questo c’è in effetti un grande attacco a quel mondo che ha determinato tutto ciò.
Tra l’altro è la stessa tematica che c’è in Cantando sotto la pioggia, solo che lì passa attraverso la comicità…
Sì, in Cantando sotto la pioggia è molto più leggera, ma forse è più lì la critica: perché in modo leggero attacchi. La critica più forte è nell’ironia. Poi certo, in Sunset Boulevard ci sono i riferimenti a questi grandi personaggi, non c’è niente di velato: è tutto detto. Per esempio è tristissimo quando si scopre che Norma Desmond è stata contattata dalla Paramount semplicemente per la sua macchina – una Isotta Fraschini – e non, come crede lei, per il copione su Salomè che aveva spedito a DeMille.
In quel contesto è anche molto commovente la scena in cui lei entra nel teatro di posa, il tecnico delle luci la riconosce, la illumina con il riflettore, gli altri le si fanno intorno…
Sì, con il brano “As if we never said goodbye” (versione Betty Buckley e versione Glenn Close): quella scena è bellissima perché vedi la fragilità di una grande diva, che poi è diva per gli altri ma dentro è una donna ferita, che ha vissuto gli sfarzi più assoluti, con Rodolfo Valentino che ballava sul suo terrazzo e poi si è ritrovata con il niente. Rientrando in quel set, lo riconosce e allo stesso tempo non lo riconosce. C’è un momento dove le si avvicina il microfono e per lei è una cosa stranissima, perché ovviamente non esisteva ai suoi tempi: gli attori erano abituati a comunicare tutto con uno sguardo, con un sorriso, With one look, appunto. Non c’era bisogno di fare altro se non guardare, ma quel “non fare altro se non guardare” nascondeva un mondo grazie al quale gli spettatori immaginavano qualcosa; la parola alla fine ha dato una definizione a tutto, senza lasciare molto spazio all’immaginazione e credo che questo aspetto, nel film e nel musical, venga fuori.
Nella scena Norma Desmond si emoziona nell’essere riconosciuta: è tornata in quel posto che è suo, la sua casa è quella, non c’è altro posto dove stare bene. Quindi c’è anche tutto il discorso sull’amore per l’effimero, per il nulla, perché è tutto molto vano, intangibile, il contatto con la realtà non c’è più.
È un’escalation fino alla fine..
Sì, fino alla fine, quando lei, come dicevamo, in trance pensa di essere sul set cinematografico della sua Salomè e scende la scalinata come se fosse Salomè; un’ulteriore follia è che lei scambi Max Von Mayerling per DeMille: è in un mondo completamente tutto suo. Ti fa riflettere su quanto l’effimero fosse potente. Oggi è tutto molto – tra virgolette – alla portata di tutti; i divi del cinema esistono, ma è tutto più vicino a noi, non come accadeva in quegli anni. All’epoca erano davvero delle divinità ed il cinema era una cosa eccezionale, qualcosa di strano che ti faceva sognare, immaginare, viaggiare con la mente in storie e mondi che non ti appartenevano.
Come si inseriscono le coreografie in tutto questo, secondo te? Mi sembrano usate in modo drammaturgico.
Sì, anche in questo caso c’è un certo tipo di studio del movimento che è tipico di un certo stile ballettistico: è drammaturgico, descrittivo, non è una coreografia che è legata alla tecnica o al bello stilistico, ma è finalizzata alla rappresentazione di un qualcosa, alla drammaturgia di un testo, di una musica…
Anche perché quando vedi uno spettacolo e pensi: ecco, questo è il momento della coreografia, vuol dire che c’è qualcosa che non va…
Sì, hai perso tutto. Infatti quando dico che “riesci a dimenticarti di tutto”, della musica, dell’attore, significa che tu sei là sopra, sei insieme a loro, sei entrato in quel linguaggio, in quel mondo e vuol dire che gli autori hanno raggiunto quello che si erano prefissati di fare: è questo il fine di uno spettacolo, lo scopo non è creare spettacolarità. Sì, deve esserci la spettacolarità, ma deve avere un senso, tutto deve avere un senso: è inutile che io veda un cantante che entra, canta e dietro c’è il balletto, non è musical, è un’altra forma di spettacolo, un concerto, ma la drammaturgia va vista in tutti i settori, anche nell’arrangiamento, per esempio. Nell’arrangiamento, che entri un flauto al posto di un’arpa o di un violoncello, è importante: c’è un motivo ben preciso, quello strumento dà un sapore specifico e ti porta in un mondo ben diverso. La scelta di ogni strumento non è data così, semplicemente, dal gusto personale dell’arrangiatore o del compositore, ma ha una funzione precisa all’interno della struttura che è l’opera. Ed in Sunset Boulevard la concezione è molto operistica, come dicevo. Ecco perché sono molto legato a Dino Scuderi e a Salvatore Giuliano, per esempio, e allo stesso Ciao Amore Ciao. Secondo me l’idea vincente di Ciao Amore Ciao è che abbiamo usato le musiche di Tenco in maniera drammaturgica. Ecco perché dico che Webber in questo è unico, eccezionale: in Sunset Boulevard soprattutto, ma anche negli altri suoi lavori. Prendiamo Cats, per esempio: gli arrangiamenti sono tutti molto “felpati”, molto legati ad un certo tipo di racconto, quello dei gatti. Non c’è mai un qualcosa che vada fuori posto, è tutto ben calibrato. In Sunset Boulevard secondo me Webber ha raggiunto il massimo.
Un’altra scena molto forte è quella della scimmia morta, cui segue la scena con il funerale…
Sì, infatti non saprei proprio dove focalizzare l’attenzione perché è un testo perfetto. La scena della scimmia… solo un genio poteva crearla. Devono fare il funerale per la scimmia e arriva Gillis che viene scambiato per uno dei becchini. Questa cosa è meravigliosa. Solo un divo di quegli anni, proprio perché poteva avere tutto, poteva avere una scimmia come animale domestico.
E la cosa sottolinea ancora di più la solitudine di Norma Desmond, la scimmia era come un figlio, era tutto…
Un figlio, era la sua vita. Poi, ripeto, rappresenta proprio il simbolo, secondo me, di un potere economico incredibile: non era un cane o un gatto, no, era una scimmia! È tutto un eccesso: la villa, è sì decadente, ma pur sempre eccessiva. È il simbolo di una ricchezza che solo quel tipo di divismo poteva concepire.
Pensiamo anche a come siano cambiati i tempi. In fondo Norma Desmond è una cinquantenne. A cinquant’anni oggi le donne, le attrici, sono nel fiore…
Esatto, oggi magari c’è qualcuna che diventa un nome a cinquant’anni. Lì stiamo parlando di dee che avevano vent’anni o anche meno, di tempi molto più stretti, immediati, veloci ma allo stesso tempo duraturi. Perché i divi di quel tempo erano divi da tanti anni, non erano meteore come oggi spesso accade e hanno fatto la storia del cinema, hanno costruito veramente un impero, hanno fatto costruire un impero.
Poi c’è il tema dell’amore che è molto importante ed è declinato in tre aspetti molto diversi: quello di Norma per Joe Gillis, quello di Joe e Betty, quello di Max per Norma, che forse è il più inquietante. Max è il suo maggiordomo, ma si scopre essere stato il suo regista di un tempo, nonché il primo dei suoi tre mariti…
È inquietante perché lui ha scelto di mollare la sua carriera per servirla: era talmente innamorato e invaghito di questa grande attrice da volerla seguire in tutto e per tutto fino a diventarne il maggiordomo…
Sopportando anche i mariti successivi…
Sì, ed è inquietante che lui debba vivere anche l’invaghimento di Norma per un ragazzo aitante, bello come Gillis, che debba sopportare l’amore di questa donna instabile che si attacca a qualsiasi cosa pur di tornare a vivere.
Max è un personaggio che se vogliamo richiama molto i film muti di un certo tipo, noir, horror. Non vorrei esagerare ma forse c’è anche una punta di alcune figure del cinema espressionista.
Sì, è vero è un personaggio che richiama molto quel tipo di espressione artistica e poi questo suo amore incondizionato per una diva, un amore che lo annienta e lo rende servo…
Poi c’è l’amore più bello e puro tra Joe e Betty…
L’amore più semplice, più vero, un amore che nasce dalla purezza, dal condividere un sogno e quindi è molto semplice, anche se nasconde un’ombra che è appunto quella di Norma Desmond. Infatti il duetto che cantano Joe e Betty musicalmente è molto semplice, anche come composizione musicale; ti dà l’idea di questo amore fresco, giovane, che nasce sotto le stelle, durante gli incontri notturni per scrivere il loro soggetto cinematografico. Un amore normale, come accade sempre: ci si innamora di una persona che si vede, che si frequenta. Webber è stato bravo anche in questo, nello scrivere un duetto che forse non rimane tanto nella memoria ma che io amo tantissimo perché descrive molto bene quel sentimento.
Tra l’altro l’amore tra Gillis e la ragazza è l’amore più alto anche perché lui si dipinge peggio di quel che è per farsi odiare, lasciare e permetterle di farsi una vita lontano da lui.
Sì. quando lui si descrive come una persona da abbandonare proprio per evitarle delle sofferenze, per proteggerla da una situazione impossibile: è l’amore più alto.
E poi c’è l’amore ossessivo, possessivo di questa grande donna che è Norma Desmond, verso Joe: non è un amore puro, in realtà è un amore verso se stessa, è l’attaccamento alla vita, non è un amore tra uomo e donna; è un tornare a vivere, avere una speranza, una prospettiva di vita, uscire dalla monotonia, anche. È morta la scimmietta: dimentichiamola! Della scimmietta infatti non si parla più. Ora c’è un altro giocattolino che è Joe Gillis. Tutto è incentrato su Norma e lei non sente nemmeno quali siano le esigenze di Joe: lo compra, gli dà i soldi, lo veste, gli dà la stanza nella villa, è un mantenimento. Impone il suo amore fino ad arrivare all’omicidio.
L’inizio della storia
Geniale per quegli anni l’uso del flashback; per di più è un morto che racconta la storia. Addirittura prima iniziava con Gillis nell’obitorio, poi tagliarono la scena dal film perché non accolse critiche positive e quindi c’è questa scena meravigliosa della piscina, e tu vedi da sotto il corpo di Gillis con la sua voce che inizia a raccontare cosa è accaduto: anche questo è bellissimo! Oggi siamo abituati a trovare di tutto al cinema, ci si inventa qualsiasi cosa per rendere più criptico il messaggio che si svelerà solo alla fine, invece in Sunset Boulevard c’è questa idea così semplice, se vuoi, ma per l’epoca così innovativa.
Contribuisce a dare un senso ancora più angosciante a tutta la storia.
Certo, perché tu aspetti, la storia cresce, cresce, cresce, fino alla fine: tu sai già come è finita ma non sai cosa ha portato a quella fine, quindi l’angoscia sale sempre di più! Questo è un linguaggio anche molto teatrale.
Un inizio del genere toglie anche allo spettatore che non conosca già la trama, qualsiasi tipo di speranza che la vicenda possa concludersi bene.
Sì, è geniale anche per questo, ti fa crescere l’emozione sapendo già dove vai a finire. Infatti quando dico “perfetto” è perché non ci sono altri aggettivi, sia per il film, sia per lo spettacolo teatrale, uno dei più belli in assoluto!
Una cosa molto importante poi è che questo è un musical drammatico: non è tutto paillettes e lustrini, ci sono nello spettacolo anche paillettes e lustrini, perché ci sono i momenti “up” come quello del Capodanno, l’inizio ecc… però è un musical che racconta una storia negativa. Perché in Italia non si possono raccontare anche queste storie? Perché il pubblico deve per forza ridere e basta quando possiamo fare dei soggetti che ci appartengono, italiani, molto forti, importanti? Ci deve essere anche il musical paillettes e lustrini, ma una cosa non dovrebbe escludere l’altra. Se siamo abituati a mangiare sempre una cosa, mangeremo sempre e solo quella; se abbiamo più varietà di scelta noi apprezzeremo tutto. Non a caso i musical che nascono tra virgolette off, hanno tutti una tematica forte, contenuti importanti, dove si sperimentano anche linguaggi diversi.
Tornando a noi, Sunset Boulevard è un dramma, un musical noir, un musical con un risvolto grottesco, negativo, c’è un omicidio, però lo spettatore non dice “Mio Dio, che cosa ho visto? Volevo ridere e non ho riso”; no! All’interno di Sunset Boulevard trovi tutto, hai tutte le emozioni in maniera completa, ci sono tutte le sfaccettature, c’è l’amore, si sorride, perfino! Perché poi Norma Desmond, nelle sue uscite da grande diva, ti fa sorridere, ridere; fa delle battute meravigliose come: “Io sono grande, è il cinema che è diventato piccolo”. Lo spettatore si diverte anche in questo, nel vedere una diva all’ennesima espressione di divismo, nel vedere l’eccessività anche sotto altri aspetti e sfaccettature, non solo nel dramma.
E poi come dicevo si basa su un film che ha fatto la storia del cinema, uno dei più grandi: magari i più giovani non lo conoscono, ma il pubblico va a teatro anche con il piacere di rivedere dal vivo quella grande storia che conosce.
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