MY FAVORITE THINGS
di Ilaria Faraoni
Titolo: Elton John & Tim Rice’s Aida
Debutto della versione teatrale definitiva di Broadway (dopo la versione di Atlanta del 1998 e la nuova versione di Chicago del 1999): 23 marzo 2000 al Palace Theatre – Musiche: Elton John – Liriche: Tim Rice – Libretto: Linda Woolverton e Robert Falls & David Henry Hwang ispirato all’“Aida” di Giuseppe Verdi (libretto di Antonio Ghislanzoni) – Regia: Robert Falls – Coreografie: Wayne Cilento – Scene e costumi: Bob Crowley – Orchestrazioni: Steve Margoshes, Guy Babylon e Paul Bogaev – Direzione musicale: Paul Bogaev – Disegno luci: Natasha Katz – Disegno fonico: Steve C. Kennedy – Produzione: Hyperion Theatricals
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TRAMA:
La storia inizia ai giorni nostri: in un museo egizio la statua di una donna faraone, Amneris, prende vita e inizia a raccontare gli avvenimenti di tanti secoli prima. La scena si sposta nell’antico Egitto. Aida, giovane ed incauta principessa nubiana viene catturata, insieme ad un gruppo di donne al suo seguito, dai soldati egiziani capitanati da Radames, l’affascinante condottiero nonché amico d’infanzia e promesso sposo di Amneris, la bella quanto (in apparenza) superficiale figlia del faraone. Il capitano salva però le donne, ormai schiave, dal lavoro insostenibile nelle miniere di rame destinandole alla raccolta nei campi e regala Aida, dalla quale si sente attratto e che ha imparato ad ammirare, ad Amneris. Tra Aida e Radames nasce una tormentata storia d’amore sulla quale si innestano diverse tematiche: il complotto di Zoser, il padre di Radames, che sta avvelenando il faraone per affrettare la successione al trono di suo figlio; il conflitto tra Zoser e Radames che, onesto e leale, non approva suo padre e non ne vuole seguire le orme; la presa di coscienza della riluttante Aida che riconosciuta da Mereb – il furbo e simpatico servitore di Radames, figlio del consigliere del re nubiano – diventa simbolo di speranza e lotta per il suo popolo prigioniero; la lacerazione di Aida, divisa tra l’amore per il capitano, l’amicizia per Amneris e la lealtà verso la sua gente ed il proprio padre; la crescita di Amneris che diventerà, grazie alla scoperta di alcune situazioni, la donna forte e matura degna di succedere al trono; il sacrificio di Nehebka, servitrice di Aida, che si fa uccidere (da un uomo inviato da Zoser) spacciandosi per la padrona. Il finale tragico, nel quale Aida e Radames vengono sepolti vivi, è addolcito dal ritorno ai giorni nostri, nel museo egizio, con le reincarnazioni dei due protagonisti.
[divider]N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.
Fabrizio, perché hai scelto questo titolo?
Ci sono nella vita delle cose che ti colpiscono in un certo modo: può trattarsi di un evento, di una persona, di un quadro… e naturalmente di uno spettacolo teatrale. Quando ci entri in contatto, avviene qualcosa in te di inspiegabile, te ne senti attratto, senti una sinergia particolare. Questo lavoro mi ha toccato in un certo modo fin da subito, però sentivo che non era semplicemente per le musiche affascinanti, gli interpreti grandiosi o l’allestimento così importante. Era qualcosa che andava oltre. Al momento qualcosa di inspiegabile.
Dopo un po’ di anni, proprio grazie a questo elaborato mi sono trovato di nuovo in contatto con Aida, e ho avuto modo di andare più a fondo, mi sono documentato, insomma sono entrato “dentro” lo spettacolo in un maniera più consapevole e se vogliamo critica. Ho dunque colto meglio una serie di valori e di tematiche che allora, preso dalla musica, dalla vocalità degli interpreti e quant’altro, avevo lasciato in secondo piano.
Aida è la storia di un percorso, anzi di tre: i protagonisti, appunto Aida, Radames e Amneris, affrontano una serie di prove nel corso della storia che li vedrà passare da un atteggiamento quasi spensierato ad una consapevole e dolorosa maturità. Ci sono delle scelte, ci sono delle rinunce. Ci sono delle priorità. C’è il valore dell’amore, ovviamente, ma c’è anche quello per la propria terra. C’è il valore dell’amicizia e anche la delusione. C’è l’essere combattuti tra più sentimenti contrastanti. Insomma lo spettacolo è intriso di elementi psicologici affascinanti, nel quale ogni spettatore può trovare qualcosa di sé, qualcosa che gli appartiene. E questo traspira quasi da ogni brano musicale. I più affascinanti sono dei veri e propri monologhi o soliloqui in musica, nei quali i tormentati personaggi cercano una risposta alle loro domande in quei travagliati momenti.
Trovo insomma che questo spettacolo sia in qualche modo catartico. Non è solo dunque l’emozione per una storia particolare, o per un brano eseguito in un certo modo (e che modo!…). È come partecipare ad un rito. Ogni volta che sento il CD, quando arrivo in fondo sento anche io, senza esagerazione, come se avessi fatto un viaggio, un percorso. Credo sia questo il grande valore di questo spettacolo, al di là dell’oggettivo piacere di una musica, di un testo o di un interprete, e credo proprio sia quello che mi ha conquistato fin da subito. Se a questo aggiungiamo il team degli autori, gli interpreti, la messinscena e il fatto che a Broadway abbia collezionato oltre 1800 repliche, senza considerare poi le altre edizioni, capiamo che stiamo parlando di uno dei più importanti spettacoli musicali degli ultimi venti anni. Almeno secondo me…
Date le diverse edizioni e l’alternanza degli interpreti, qual è la tua versione di riferimento?
Ho avuto la fortuna di assistere a AIDA a Broadway nell’agosto 2001, con buona parte del cast originale. C’erano Heather Headley e Adam Pascal, ovvero Aida e Radames, mentre purtroppo non c’era più Sherie Rene Scott, l’Amneris originale, sostituita dalla pur brava ed energica Taylor Dayne. Dunque la mia versione di riferimento è quella.
Ho ancora molto vivi i ricordi e le emozioni di quella serata. Ricordo che alla fine mi fiondai all’ingresso artisti per vederli da vicino e farmi autografare il programma di sala. Pascal purtroppo fece la “star” e uscì da un altro ingresso. Gli altri furono invece molto gentili. Heather Headley uscì per ultima, semplicissima, con una bandana in testa. Si fermò, fece autografi ai pochi rimasti, si prestò per le fotografie e scambiammo due chiacchiere. Adorabile. Poi se ne andò a prendere la metro, come gran parte degli artisti che lavorano a Broadway.
Alcuni turisti mi chiesero se avevo visto lo spettacolo, e cosa ne pensassi. Risposi che lo spettacolo era una bomba, e rispetto alla protagonista dissi che non avevo mai visto niente di simile. Ed era vero…
Ovviamente, dal momento che sono passati 13 anni, un video mi è stato d’aiuto per ricordare e riscoprire delle cose. Inoltre come materiale avevo il cd, il programma di sala, e un bellissimo libro sul “making of” di AIDA, scritto da Michael Lassell, che avevo comprato proprio in quei giorni dopo aver visto lo spettacolo, e nel quale ho trovato molte informazioni interessanti.
Il libretto, le musiche, i testi.
John e Rice avevano entrambi collaborato con la Disney già per IL RE LEONE, sia nel cartone animato che successivamente nello spettacolo teatrale. Thomas Shumacher e Peter Shneider, presidenti della Buena Vista Theatrical Group (sigla che comprendeva sia Hyperion Theatricals, l’effettiva produzione di AIDA, e Disney Theatricals, produzione invece delle versioni teatrali de LA BELLA E LA BESTIA e de IL RE LEONE) avevano acquisito i diritti di un libro per bambini scritto dalla diva d’Opera Leontyne Price che ri-raccontava la storia della principessa Aida, e pensando ad un cartone animato sottoposero l’idea a John e Rice. I due autori però non furono entusiasti rispetto all’idea di un nuovo film di animazione, e la produzione propose loro dunque un musical, per realizzare dopo 130 anni dall’AIDA di Verdi un qualcosa di musicale altrettanto spettacolare.
Pur ritenendo che fosse una mossa pericolosa che faceva loro rischiare il lancio delle pietre da parte dei critici (e dei “puristi”), Elton John ritenne ci fossero molte ragioni per tentare, perché non aveva mai scritto nulla fino ad allora direttamente per il palcoscenico, e ne era attratto, così come era attratto dalla storia, un triangolo amoroso con implicazioni politiche e morali. Anche Tim Rice fu conquistato dalla storia, fondamentale per la riuscita di un lavoro.
Rispetto alla musica, Elton John decise di dar vita ad una sua versione “moderna, come lo era quella di Verdi quando l’opera fu scritta”. Non un’opera dunque (tra l’altro le opere “moderne” o “popolari” sarebbero arrivate solo qualche anno più tardi), ma un vero “musical pop, con scene recitate e dialoghi, nel quale le classiche ballad si mescolano a canzoni “nere, urbane, rhythm ‘n’ blues, canzoni ispirate ai gospel e canzoni nello stile di “Crocodile Rock” (uno dei suoi brani più famosi dell’inizio degli anni ’70).
Rispetto al testo, quando la produzione decise di fare di AIDA uno spettacolo teatrale piuttosto che un film animato, il libretto della Price fu accantonato, e fu scritturata invece Linda Woolverton, già autrice della versione per il palcoscenico de LA BELLA E LA BESTIA, che preferì non ispirarsi all’AIDA di Verdi ma alla storia Egizia. Dopo una serie di ricerche storiche, la Woolverton decise di spostare la patria di AIDA dall’Etiopia alla Nubia. Inoltre stabilì fermamente di rendere Aida il personaggio centrale e principale della vicenda, enfatizzando il suo dramma di donna tormentata tra la passione per il suo amante, l’affetto profondo per la sua padrona e un irremovibile senso del dovere verso il suo popolo. Cercò poi di rispondere alla domanda “Come può il carceriere di una schiava innamorarsi di lei, e viceversa?”, che rese il tutto sicuramente più interessante e più vicino ad un approccio contemporaneo. Fu poi molto interessata a rivedere e ricreare il rapporto tra le due donne e dunque fece in modo che Aida e Amneris divenissero quasi amiche, pur essendo l’una la schiava dell’altra.
L’autrice scrisse il libretto lasciando delle parti vuote dove riteneva che il testo dovesse diventare una canzone, o meglio dando delle indicazioni circa quello che la canzone avrebbe dovuto raccontare e dire. Se Giuseppe Verdi pretese di terminare l’intera partitura prima di consegnare il lavoro all’autore del libretto (che ben pochi sanno si chiamasse Antonio Ghislanzoni…), Elton John era abituato a fare il contrario, dunque Rice scrisse prima le liriche, sulle quali poi lui “modellò” le musiche. Fu una novità per Rice, che fu stimolato dunque a cambiare il suo metodo e le sue abitudini di lavoro. Pur seguendo le indicazioni della Woolverton, Rice ricorda che a differenza di quanto avveniva di solito, ovvero far parlare i personaggi secondo il “loro” punto di vista, in AIDA spesso ebbe modo di far dire ai personaggi esattamente quello che “lui” pensava e sentiva, come in particolare nel brano “Elaborate Lives”.
Quando il primo atto e le sue canzoni furono pronti, si decise di procedere ad un primo workshop a New York, che venne effettuato come un reading, con tanto di leggii, nell’aprile del 1996. Un secondo workshop si tenne nel novembre dello stesso anno, ed un terzo nella primavera dell’anno successivo. Nel corso di questi passaggi, i brani musicali rimasero più o meno gli stessi, ma subirono magari degli spostamenti, o da assoli divennero duetti o trii, oppure passarono da un atto all’altro, così come furono interpretati da personaggi diversi, a seconda di come procedeva lo sviluppo del lavoro. Il testo invece fu molto rimaneggiato: addirittura sembra che nel primo workshop l’andamento fosse molto brillante, forse perché nell’ordine i primi brani erano “Another Pyramid” e “My Strongest Suit” (link alla versione con Sherie Rene Scott), che furono anche i primi ad essere scritti.
Fu stabilito successivamente il debutto dello spettacolo ad Atlanta nel settembre del 1998. Il titolo allora era ELABORATE LIVES: THE LEGEND OF AIDA, e prendeva il nome dalla canzone preferita di Elton John. Erano presenti sia Heather Headley, che proveniva da IL RE LEONE, nel quale aveva interpretato Nala, e Sherie Rene Scott, che aveva al suo attivo RENT e TOMMY. Entrambe sarebbero rimaste anche nello spettacolo che avrebbe poi debuttato a Broadway, e la Scott addirittura era presente fin dal primo workshop.
Atlanta fu l’occasione per capire che lo spettacolo aveva una sua solidità, ma che erano necessarie delle modifiche sia alla struttura drammaturgica che a quella scenografica. Per il successivo debutto a Chicago nel novembre del 1999, che avrebbe preceduto quello di Broadway del marzo 2000, la produzione decise di cambiare parte del team creativo: la regia fu affidata a Robert Falls, le coreografie a Wayne Cilento, le scene e i costumi a Bob Crowley, mentre furono confermati Natasha Katz (disegno luci), Paul Bogaev (direzione musicale) e Steve C. Kennedy (disegno fonico). Inoltre fu scritturato Adam Pascal (il Roger del cast originale di RENT) come Radames e il titolo fu modificato nel definitivo “Elton John and Tim Rice’s AIDA”.
Robert Falls, che nell’edizione finale compare anche come autore del testo, ebbe il compito di trovare un valido equilibrio tra la tragedia e la commedia, ovvero tra la parte drammatica, che effettivamente alla fine ha la predominanza, con la parte brillante, inevitabile in uno spettacolo di questo tipo. Non aveva mai diretto un musical prima di AIDA, ma fu scelto per la sua capacità nello sviluppare nuovi progetti e reinterpretare i classici della prosa (aveva diretto a Chicago un’esaltante versione di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, che successivamente fu portata a Broadway e gli valse un Tony Award per la regia). Falls non si avvicinò ad AIDA come al “grande musical di Broadway” (anche se di fatto lo è), ma come era solito fare negli altri lavori, ovvero tentando di creare con i collaboratori qualcosa di autentico, bello e spettacolare ma assolutamente dipendente dalla storia, che in questo caso è teatrale, moderna e profondamente seria. Per un ulteriore lavoro da fare in merito al testo fu scritturato anche l’autore David Henry Hwang, ed insieme cercarono di rispondere in particolare ad alcune domande tipo: perché Aida dovrebbe innamorarsi del suo carceriere? Perché lui dovrebbe innamorarsi di una schiava e rinunciare al trono d’Egitto? Perché Amneris, apparentemente frivola, ad un certo punto si apre e mostra la sua fragilità proprio alla sua servitrice? Se Amneris alla fine del lavoro deve essere una leader e succedere al faraone, dove prende la sua forza? Qual è l’effetto del suo affetto per Aida su Radames, e quale quello per lui su Aida? Falls voleva dunque rendere il testo più importante, serio, e rendere lo show fluido e interessante sia per quello che riguardava i rapporti tra i personaggi, sia tra il testo e gli altri elementi come la musica e la danza, cercando di evitare che certi aspetti puramente commerciali prevalessero sulla storia e sulla verità e realtà del racconto.
Tra i cambiamenti sostanziali ci fu anche la trasformazione del servitore nubiano di Radames, Mereb, da bambino di 12 anni ad adolescente sufficientemente grande da essere considerato più un uomo che un ragazzo. Per questo ruolo fu scritturato Damian Perkins. La struttura di base della Woolverton di fatto rimase, ma molti cambiamenti furono effettuati nel testo, con le battute riscritte molte volte, magari per tornare poi in certi casi alla versione originale.
Nell’ultimo passaggio tra Chicago e Broadway ci furono altre sostanziali modifiche: una nuova canzone fu scritta per l’ingresso in scena di Radames (“Fortune Favors the Brave”); “Enchantment Passing Through” fu trasformato da assolo di Radames a duetto di lui con Aida; il numero finale del primo tempo fu tagliato e sostituito in blocco da “The Gods Love Nubia” (link alla versione con Heather Headley). Anche “My Strongest Suit” rischiò il taglio, perché sembrava che interrompesse la linea narrativa, ma poi fu mantenuta, anche per rispetto e omaggio a Elton John, un fan dell’alta moda, come tutti sappiamo (il numero mette praticamente in scena una sfilata).
Detto tutto questo, ovvero cose che riguardano più che altro la genesi del lavoro, venendo ad un discorso stilistico direi che le tre componenti libretto-musica-liriche hanno evidentemente viaggiato verso un’unica direzione, ovvero quella di non preoccuparsi più di tanto di un discorso filologico, ma di rileggere la storia di AIDA, pur ambientata in un’epoca presumibilmente del passato, vista però con lo sguardo, il gusto e le problematiche di oggi. In questo senso Elton John ha spaziato con le musiche concedendosi il lusso di avventurarsi in brani di stile diverso, passando dal rock di “Fortune favors the Brave” o “Like Father Like Son” al reggae di “Another Pyramid”, dall’etnico di “Dance of the Robe” al Gospel-Spiritual di “The Gods Love Nubia” (link alla versione con Maya Days), dalle classiche ballad come “The Past is Another Land”, “Elaborate Lives” (link alla versione con Maya Days) o “Written in the Stars” ad una “Crocodile Rock song” (come lui stesso l’ha definita) quale è “My Strongest Suit”, che in effetti anche a me ha subito fatto pensare alla sua famosa canzone fin dal primo ascolto. Ci sono poi alcuni brani nei quali i personaggi si fanno delle domande, come in “Not Me”, “A Step too Far”, “Easy as Life” o “I Know the Truth”, e secondo me sono i momenti più emozionanti, in quanto si sente in maniera evidente il lavoro che è stato fatto sia nella costruzione psicologica del personaggio diciamo “sulla carta”, sia poi nell’interpretazione da parte dei performer. In questo senso le liriche e la musica sono davvero fuse insieme, sono un tutt’uno, e insieme contribuiscono a creare il pathos del momento. È come se il groviglio dei pensieri che si affolla nelle teste dei personaggi trovi nei brani, e quindi nelle parole e nella musica, l’unica forma adatta per l’espressione del groviglio stesso. Mi ricordo che durante l’allestimento di West Side Story con la Compagnia della Rancia, il coreografo americano Tim Connell disse: “Tony inizia a cantare “Maria” perché non potrebbe fare altro… Non ci sarebbe maniera migliore per esprimere quello che prova in quel momento”. Ecco, il senso è lo stesso. Un’altra cosa importante è che il passaggio dal recitato al cantato e viceversa anche all’interno di uno stesso brano è in generale sempre molto fluido ed organico, specie in brani come “How I Know You” o “Enchantment Passing Through”, o anche l’attacco di “The Past is Another Land” in cui Aida passa dal recitato al violento “You know nothing about me!…” senza soluzione di continuità. Il libretto è secondo me al servizio della parte cantata (i brani, comprese le riprese, sono ben 23), anche perché la maggioranza dei momenti salienti è concentrata nei brani musicali, nei quali, forse perché prima scritti e poi musicati, Tim Rice ha dato vita a liriche fluide ma dense di contenuto. Dunque anche momenti importanti come lo scontro generazionale tra Radames e il padre Zoser, che trama nell’ombra perché il figlio prenda il potere avendo in pratica già deciso della sua vita per lui, vengono sviluppati soprattutto attraverso la musica, in questo caso in “Like Father Like Son”.
Musicalmente come si pone secondo te “Aida” rispetto agli altri musical firmati da Elton John?
Non sono un critico musicale, ovviamente, quindi rispondo istintivamente. La mia impressione è che in AIDA abbia avuto una maggiore libertà di espressione, proprio per il tipo di trattamento che la storia ha subito anche da parte degli autori del testo e delle liriche, sia rispetto al precedente THE LION KING del 1997, sempre scritto con Tim Rice, nel quale forse i richiami al mondo africano sono stati un po’ condizionanti, che al successivo BILLY ELLIOT THE MUSICAL del 2005, con testi di Lee Hall, che in generale ho trovato più “semplice” da un punto di vista musicale, anche negli arrangiamenti, che in AIDA invece ritengo superbi. E poi, ma questa è ovviamente una questione soggettiva, io non mi stanco mai di sentire AIDA, cosa che non mi succede con gli altri due. Ho l’impressione che AIDA si ponga ad un livello leggermente più alto ma, ripeto, è comunque una questione di gusto personale. Non conosco invece THE VAMPIRE LESTAT del 2006, scritto con Bernie Taupin, che non ha avuto peraltro molta fortuna.
La regia.
Robert Falls, il regista della versione di Broadway, fu scelto dalla produzione dopo i tre workshop e il primo debutto ad Atlanta, ovvero per la ripresa a Chicago, nella quale fu evidente la nuova impronta dello spettacolo, sebbene tra Chicago e il debutto a Broadway furono operati ulteriori cambiamenti, in alcuni casi anche sostanziali.
Falls, in accordo anche con lo scenografo Bob Crowley (e ovviamente con la produzione) decise di semplificare significativamente l’apparato scenico e i costumi, per arrivare ad uno spettacolo “quasi” minimalista rispetto ai precedenti Disney THE LION KING e soprattutto BEAUTY AND THE BEAST. Come regista proveniente dalla prosa il suo interesse principale era soprattutto la storia più che l’apparato, dunque il lavoro fatto con gli attori anche nelle parti musicali venne esaltato in alcuni momenti anche da un palcoscenico nudo e da un semplice spot. Eccellente dunque il modo in cui gli attori furono diretti, almeno a giudicare dal risultato ottenuto. Fu fondamentale per Falls trovare il giusto equilibrio tra tragedia e commedia, perché in AIDA ci si commuove e si riflette, ma c’è anche molto humor.
Fondamentalmente i due vollero creare un “loro” Egitto contemporaneo che comprendesse in maniera naturale sia momenti modernamente “fashion” sia altri più vicini alla tradizione, con un mix di elementi anche indiani, asiatici o africani, pur partendo da una visita che fecero insieme alla collezione Egizia presso il Metropolitan Museum of Art a New York, con l’intenzione di trovare ispirazione nell’essenza di ciò che vedevano, ma non di replicare o di copiare. Anche la scena iniziale dello spettacolo, che rappresenta proprio un museo Egizio dei giorni nostri, appare stilizzata, quasi tutta bianca, con il grande occhio del mito Horus che occupa quasi per intero l’enorme fondale. Di lì una statua prende vita: è Amneris che introduce la storia con “Every Story is a Love Story”. Nel corso dello spettacolo, e specialmente nel finale in cui si torna alla situazione iniziale, si capirà che due dei turisti in visita al museo sono proprio Aida e Radames, o comunque la loro reincarnazione, e che la misteriosa struttura quadrata presente nella teca centrale è quella che fu la loro tomba.
Il passato insomma si fonde con il presente, e con questo artificio il regista non ha bisogno di fingere che gli attori e il pubblico siano in Egitto al tempo dei Faraoni, per cui può prendersi la massima libertà, estesa naturalmente a tutte le componenti dello spettacolo: musiche, testi, scene, costumi e così via.
C’è comunque una grande semplicità di fondo (per quanto semplice possa essere uno spettacolo in scena praticamente a Times Square…). Ad esempio, la flotta di Radames è rappresentata con delle semplici vele mosse dai danzatori; oppure l’arrivo dei nubiani prigionieri in Egitto è risolto con una semplice silhouette di piante piazzata al centro del fondale, questa volta arancio-rosso. L’idea geniale però è che l’immagine è raddoppiata esattamente sotto ma rovesciata, per cui l’effetto è quello di un fiume, il Nilo, nel quale le piante si specchiano.
La regia è in generale molto dinamica, con un taglio quasi cinematografico: non c’è quasi mai una stasi, i cambi scena avvengono spesso durante i brani cantati, e in alcuni casi la canzone inizia in un luogo, si sviluppa in un altro e termina in un altro ancora, così come un fondale che rappresenta le rive del Nilo diviene nella scena successiva una tenda sopra un mercato e subito dopo l’accampamento di Radames. Devo dire che questi sono artifici che anche io amo usare quando metto in scena uno spettacolo: preferisco quasi che non ci sia un momento di arresto se non all’intervallo (se c’è), e a volte tendo a fare in modo che alcuni brani musicali non abbiano nemmeno il tempo di prendere l’applauso, per non interrompere il pathos del momento (con grande disappunto dei performer, lo ammetto…).
Le coreografie
Come il resto della produzione, anche il coreografo Wayne Cilento sposò l’idea di un’ampia libertà nel movimento, ovvero il non dover ricreare necessariamente quel tipo di gestualità “tipicamente egiziana” (e intendo ad esempio la bidimensionalità, le mani piatte verso l’alto o il basso, insomma le classiche movenze nello stile dei geroglifici). Ecco dunque che sposando anche gli stimoli provenienti dalla colonna sonora decise di fondere insieme stili diversi, come l’etnico, l’afro, alcune movenze indiane, ma anche qualcosa di molto contemporaneo e quasi televisivo come la coreografia di “Another Pyramid” o la sfilata di moda di “My Strongest Suit”. L’intento fu comunque quello di non interrompere la storia ma di raccontare sempre qualcosa anche attraverso il movimento, in accordo con la visione del regista. Se questo è particolarmente riuscito nelle sequenze più “etniche”, ovvero quelle che coinvolgono i prigionieri nubiani, come in “Dance of the Robe” o “The Gods Love Nubia”, devo dire che invece i brani interpretati da Zoser, coreograficamente più moderni, in alcuni momenti sembrano più decorativi: in “Another Pyramid” ad un certo punto “inizia il balletto”, e l’impressione è proprio quella del tipo “almeno un balletto qui ci vuole, visto che è un musical” (frase che ahimè ho sentito più di una volta in fase di elaborazione di uno spettacolo, specialmente da parte di gente alquanto sprovveduta da un punto di vista autorale, compositivo o drammaturgico…). Poi per carità, la coreografia è eccellente, ben eseguita e sottolineata da continui cambi di luce sugli accenti (i cambi di luce nello spettacolo sono circa 400, di cui una cinquantina solo in questo numero, ad una media di uno ogni 4.2 secondi…), dunque diventa assolutamente gradevole da guardare. Anche l’idea dello scontro generazionale tra Radames e Zoser, circondati dai ministri con delle barre di metallo, diventa un po’ artificiosa, però è di grande effetto. Per non parlare della strepitosa sfilata degli abiti di Amneris in “My Strongest Suit” (link alla versione completa con Idina Menzel), in quella che noi definiremmo “un’americanata”, ma che è talmente bella da guardare che si perdona sia a Cilento che a Falls l’esagerato aspetto puramente decorativo della scena. Ricordo che in questa scena mi rimase impresso un piccolo particolare: le ballerine indossano dei vestiti molto elaborati, e soprattutto dei copricapo improbabili (una ha la testa infilata in un cubo di vetro, un’altra in una piramide). Ad un certo punto del viavai sulla passerella due si incontrano, mentre una va e una viene, ed evidentemente non potrebbero passare entrambe senza una collisione dei copricapi… Dunque insieme fanno un colpo di testa verso l’esterno, che è sottolineato da un accento musicale, suscitando anche dell’ilarità nel pubblico… Insomma, è vero che alcune cose sono esagerate, ma lo sono volutamente e consapevolmente.
Hai già sottolineato una certa modernità e atemporalità con cui sono affrontati scene e costumi e “My Strongest Suit” è appunto un quadro emblematico che accentua al massimo questo tipo di visione; la barriera del tempo viene abbattuta e tutto concorre a questo sfasamento temporale: il testo del brano, lo stile musicale (una “Crocodile Rock song” come hai ricordato più su), l’abbigliamento, fino al gran finale con la famosa sfilata di moda di cui parlavi… Vuoi aggiungere qualcos’altro sul lavoro di Bob Crowley a partire proprio da questa scena?
Come appunto ho già accennato, la generale atemporalità è stata una scelta ben precisa del regista e di tutto il team creativo. Si vuole “suggerire” l’idea di un Egitto, e non meramente descriverla.
La scena specifica inizia con un’immagine che strappava un applauso a scena aperta: provenendo da un palcoscenico fino a quel momento pressoché nudo, o con pochi elementi, improvvisamente ci si trovava catapultati nella piscina di Amneris, con una visione aerea mozzafiato ottenuta con un fondale con un enorme cerchio di tulle trasparente, con l’acqua e le sue piccole increspature proiettate su di esso, e con due danzatrici appese a dei fili invisibili, che sembravano nuotare nell’acqua. L’impressione era insomma quella di vedere la piscina dall’alto. Amneris, contornata dalle schiave, sembra uscire dalla piscina stessa. Con l’inizio del brano vero e proprio la scena si trasforma, la piscina scompare e con l’incalzare della musica appare al suo posto un enorme pannello con finestre luminose multicolori, e al centro una passerella che avanza verso il pubblico, sulla quale sfileranno prima le danzatrici-indossatrici e poi la stessa Amneris, inguainata in un abito nero con uno stupefacente enorme copricapo, sulla cui sommità è seduto un gatto (io vi ho letto una stilizzazione del dio Anubi…).
Nel passaggio tra le repliche di Chicago e il debutto di Broadway, questa scena rischiò di essere completamente tagliata, ma poi si decise di mantenerla, anche se la seconda parte venne creata appositamente, il che significò una spesa per la produzione di migliaia di dollari tra la scena e i costumi (“less is more” divenne “less costs more”…), che diventano talmente di fantasia da non appartenere quasi a nessuna epoca. Come in molte vere sfilate di moda, appaiono abiti che nessuno indosserebbe mai nella vita, ma che nella maggioranza dei casi esaltano lo stilista e sottolineano il suo stile o la sua follia.
In generale, di fatto, Bob Crowley puntò specie per i protagonisti più ad un concetto di abiti che non di costumi, spesso con influenze, come ho già detto, provenienti da suggestioni africane o indiane. Ad esempio all’inizio della scena del banchetto, nel quale viene annunciato il matrimonio tra Radames e Amneris, ci sono tre danzatrici “katakhali”. La cosa in sé forse non avrebbe molto senso, ma Crowley non ama molto spiegare i perché di certe scelte, e ritiene che l’essere troppo specifici limiti l’immaginazione del pubblico. Io personalmente ho trovato un po’ forzato il “biondo platino” di Zoser, e quando vidi lo spettacolo faticai un po’ a capire che era il padre di Radames… Ma tant’è…
Riguardo le scene, c’è da aggiungere un particolare: nei vari passaggi Atlanta-Chicago-Broadway, due importanti elementi vennero modificati. In Atlanta era presente una enorme piramide centrale il cui movimento avveniva attraverso un complicato e sofisticato sistema computerizzato, con laser e pompe idrauliche, che però si bloccò sia durante una delle anteprime (e lo spettacolo proseguì in forma di concerto, con gli attori seduti in semicerchio), sia durante la “prima”, in presenza della stampa locale e nazionale. Da allora la piramide fu soppressa, e l’unico elemento che rimane a ricordarla è un triangolo di luce all’inizio del secondo tempo, realizzato con un raggio laser, che simboleggia anche il complicato rapporto tra i tre protagonisti (che infatti cantano “A Step Too Far” in un concertato a tre, nel quale le voci sembrano rincorrersi). Invece la tomba nella quale vengono sepolti vivi Aida e Radames, come punizione per il tradimento (quella poi visibile all’inizio e alla fine dello spettacolo nella ricostruzione del museo Egizio), era disegnata per salire verso l’alto nel buio con i due attori all’interno. Durante una delle anteprime di Chicago però il meccanismo ebbe dei problemi, e l’elemento scenico crollò al suolo, e i due protagonisti rimasero feriti, sia pur non gravemente. Da allora si decise che la tomba sarebbe rimasta sul pavimento. Dunque non sempre le scelte furono motivate da questioni estetiche o concettuali, ma anche da praticità e sicurezza.
Questa particolare concezione di scene e costumi si può in definitiva legare direttamente alla modernità con cui sono affrontati, come hai spiegato in precedenza, la costruzione psicologica dei personaggi (quelli di Aida e di Amneris in particolare), i rapporti tra i personaggi stessi (illuminante appunto la diversità del rapporto tra Aida e Amneris) , i messaggi che si vogliono veicolare e la trama, che qui parte come un antefatto rispetto al racconto dell’opera lirica e prende poi nuove strade. Se si confronta questa “Aida” con quella di Verdi, infatti, si nota immediatamente che dell’originale è stato mantenuto ben poco, sia per quanto riguarda i caratteri dei personaggi, sia per quanto riguarda la storia, grazie anche all’invenzione ex novo di personaggi come Mereb, Zoser, Nehebka. Vuoi approfondire questo discorso?
Sono assolutamente d’accordo, e gran parte di questo è già stato esposto nelle risposte precedenti. Nella locandina dello spettacolo infatti si legge: ”Book by Linda Woolverton and Robert Falls & David Henry Hwang suggested by the Opera”. L’Aida di Verdi è stata insomma solo un punto di partenza, ma molti elementi sono diversi. Per citarne qualcuno, nell’Opera all’inizio Aida è già prigioniera e già innamorata di Radames, mentre nel musical questo avviene nel corso della storia; nel 2° atto dell’Opera, Amneris spinge Aida a dichiararle il suo amore per Radames dicendole che Radames è morto in battaglia, cosa non vera, dopodiché la minaccia, mentre nel musical tutto questo non avviene, e Amneris che ha trovato in Aida una confidente, quasi un’amica, scoprirà la storia tra i due solo verso la fine, ascoltandoli casualmente da dietro una parete; nel 4° atto dell’Opera, Amneris desidera salvare Radames e si appella ai sacerdoti, maledicendoli dopo la sua condanna a morte, mentre Aida di nascosto entra nella cripta per morire insieme a lui. Nel musical i due sono entrambi condannati a morte e sarà proprio Amneris a pretendere e ottenere dal Faraone che i due amanti vengano sepolti insieme. Questi sono solo alcuni esempi, ma certamente la cosa più evidente è la costruzione dei personaggi, i rapporti tra gli uni e gli altri in questa sorta di triangolo amoroso che si mescola con le vicende politiche, gli intrighi di Zoser, il tentativo di fuga di Mereb, il sacrificio di Nehebka, il desiderio di libertà dei Nubiani, e così via. Non dimentichiamo che in un’Opera la parte più importante è sempre la musica (spesso chi non conosce le parole nemmeno le capisce, e dopotutto il librettista ha un nome sconosciuto ai più), mentre nel musical la comprensione delle parole è fondamentale e dopotutto Elton John e Tim Rice sono sullo stesso piano, anche in locandina. Dunque un grosso lavoro è stato fatto proprio sul libretto e naturalmente sulle liriche. Quello che è molto importante è anche il percorso dei singoli personaggi. Come dicevo all’inizio, ognuno di loro subisce un cambiamento, attraversa in qualche modo una crisi e una sofferenza, dalle quali esce con una maturità e una consapevolezza ben diverse rispetto all’inizio. La frivola Amneris, preoccupata fino ad un certo punto solo dell’apparire, della moda, del benessere, acquista una coscienza di sé nel corso della storia, e pur uscendone in qualche modo sconfitta saprà trarre vantaggio dalla sua sofferenza: la maturità, la storia e il sacrificio dei due amanti la porterà a succedere al padre conducendo un regno di pace; Radames, che all’inizio appare come il giovane condottiero rampante, preoccupato solo della carriera e del potere, mostra invece ben presto la sua vulnerabilità proprio grazie ad Aida, e arriva a mettere in discussione il volere del padre Zoser quasi compromettendo il proprio matrimonio con la figlia del Faraone, e dunque l’ascesa al trono, per salvare Aida e i Nubiani, cosa che gli costerà l’accusa di alto tradimento e la condanna a morte; Aida è forse quella che già dall’inizio ha la sua personalità ben definita, ma che comunque si trova a dover affrontare una delle prove peggiori: la scelta tra l’amore per il proprio uomo e quello per il proprio popolo, insieme al sincero affetto per Amneris, pur essendone la servitrice. Nel colloquio con il padre capisce che dovrà separarsi per sempre da Radames, ma gli eventi andranno in maniera diversa, e insieme a lui sarà immolata. Tutti questi particolari, che non sono certo delle cose superficiali, sono pienamente descritti, pensati, vissuti soprattutto nei brani musicali e nel trattamento, che rendono lo spettacolo denso di una grande profondità anche morale.
I cambiamenti sostanziali apportati in questa Aida, pongono in evidenza il discorso sempre attuale dei rimaneggiamenti operati su testi classici. Qual è il tuo pensiero al riguardo? Quanto è giusto stravolgere un testo esistente seppur con cambiamenti e aggiunte che a volte possono anche migliorarlo o renderlo più vicino alla nostra sensibilità? C’è un confine che non andrebbe superato?
Io ritengo che in realtà l’operazione AIDA non sia stato uno stravolgere, ma un ispirarsi ad una storia già raccontata oltre un secolo prima con il linguaggio, le mode, i gusti dell’epoca, densa di ingredienti accattivanti e quindi affascinanti. Partendo dal presupposto che comunque un melomane difficilmente ammetterà di apprezzare l’AIDA di John e Rice, così come forse anche il contrario, penso che sia una cosa logica e naturale riprendere delle storie o degli spunti già esistenti per dar vita a nuovi lavori, raccontati con il linguaggio di oggi. Certo, la domanda che mi poni è molto soggettiva, in particolare relativamente al confine. Credo che la cosa più importante sia la coerenza. Anche con se stessi. Effettuare uno stravolgimento per il solo gusto magari di destare scandalo, o presentare una novità, o comunque far vedere che si ha una bella idea, senza che tutto questo sia organicamente inserito all’interno di una visione generale, è secondo me un processo sterile che porta a ben poco. Forse può provocare l’eccitazione immediata per la novità o il plauso per l’aver osato, ma personalmente non apprezzo molto il singolo momento geniale all’interno di un lavoro magari mediocre. Tutto deve avere un senso, una motivazione, e anche una cosa forte, d’impatto e di effetto deve avere un suo perché. Faccio un esempio con un mio lavoro, la regia di JESUS CHRIST SUPERSTAR prodotto dalla Compagnia della Rancia nel 2006. Avevo deciso di ambientare l’azione ai giorni nostri tra un gruppo di disadattati che potevano essere degli immigrati, dei clandestini, o comunque delle persone ai margini della società. La loro controparte, ovvero “i Sacerdoti” ho creduto opportuno diventasse un gruppo di politici, con tanto di abiti eleganti, occhiali e valigetta 24 ore. Nel momento in cui Giuda si presenta a loro, per poi di fatto compiere il tradimento, mi sono chiesto dove e in che momento avrebbe potuto aver luogo questo incontro. Suggestionato anche dal ritmo incalzante della musica (“Damned For All Time/Blood Money”), ho immaginato che i politici avessero una sorta di “pausa pranzo”, durante la quale si dedicavano ad una lezione di “step”, sotto la guida di un’insegnante americana… Poteva sembrare una follia, eppure aveva una sua logica e un suo perché: l’edonismo della classe dirigente, la preoccupazione della propria forma fisica più che dei problemi che li circondano sono cose con le quali ci scontriamo tutti i giorni, e io ho voluto metterla in scena. Organicamente e coerentemente con il resto dello spettacolo. Nel mio caso io comunque usavo una partitura già esistente, mentre la novità era la traduzione in italiano dei testi, che avveniva per la prima volta. Nel caso di AIDA, tutto il prodotto è nuovo. E così come non avrebbe avuto senso chiamare Elton John e pretendere che scrivesse qualcosa che non gli appartenesse, allo stesso modo tutto è andato in quella direzione. È vero, poi qualche momento, come già detto, magari è spettacolare per il solo gusto di esserlo, ma qui subentrano le leggi di mercato, l’indice di gradimento del pubblico, e così via. Io ad ogni modo, se dovessi mettere in scena AIDA, di sicuro non rinuncerei alla passerella…
Vuoi aggiungere qualcosa sugli interpreti?
Ho già parlato dei tre protagonisti. Aggiungo che Heather Headley mi emoziona tuttora quando sento il CD o osservo il video, per la verità che trasmette in ogni cosa faccia o dica, senza parlare delle capacità e delle doti vocali assolutamente fuori del comune. Adam Pascal mi ha sorpreso specialmente nei momenti più intimi e fragili, nei quali viene fuori una semplicità di esecuzione sorprendente. La Scott, che ho visto nel video, è abilissima nel passare dalla frivolezza alla maturità, sia espressivamente sia da un punto di vista vocale, mentre Taylor Dayne in scena era forse un po’ meno carismatica di lei. Superbi e di alto livello vocale e attoriale tutti gli altri. Ensemble motivato e ispirato, soprattutto nelle scene nel Campo degli schiavi Nubiani. I brani corali sono davvero travolgenti, sia nella struttura che nell’esecuzione.
Una curiosità: quando ho visto lo spettacolo, la “stand by” per il ruolo di AIDA (“stand by” è un’artista che non deve essere necessariamente in Teatro, ma che deve essere a disposizione in caso di necessità, e in alcuni casi ha un numero di repliche assicurato ogni settimana o ogni mese) era Maya Days. Avevo conosciuto Maya poco tempo prima mentre interpretava Mimì in RENT, sempre a Broadway, quando Nicoletta Mantovani che avrebbe prodotto lo spettacolo in Italia portò me, il cast e i musicisti a New York a vederlo e a conoscere la famiglia e il mondo di Jonathan Larson, l’autore di RENT. È stato bello saperla in qualche modo coinvolta in un altro spettacolo che come RENT mi ha colpito tanto.
Devo dire che ho fantasticato molto sull’idea di AIDA in Italia, perché è proprio un lavoro che mi piacerebbe dirigere. Quando vidi lo spettacolo avevo appunto appena curato la regia di RENT, dunque istintivamente pensai che mi sarebbe piaciuto dirigere Michele Carfora e Francesca Taverni come Radames e Amneris, mentre per Aida avevo pensato a Francesca Tourè, che aveva lavorato con me in LA PICCOLA BOTTEGA DEGLI ORRORI, con La Rancia. A distanza di 13 anni, sono molti di più i performer che potrebbero essere giusti per i ruoli. Non me ne vogliano gli altri, ma se potessi farei con piacere un’audizione per Aida a Daniela Pobega (che come la Headley attualmente è in scena come Nala in EL REY LEON a Madrid), per Amneris a Valentina Gullace e per Radames a Luca Giacomelli. Per Zoser, proprio oggi pensavo a Cristian Ruiz. “È bello sognare”, diceva una frase di RENT…
Ho comunque visto un’edizione di una giovane Compagnia alcuni anni fa a Gubbio, con Luca Notari ospite nel ruolo di Radames, ad opera di Enrico Zuddas che aveva curato le traduzioni e la regia. In quell’occasione i brani erano cantati in inglese e il recitato in italiano, ma so che in un’altra performance aveva tradotto anche le canzoni. Il prodotto era davvero notevole, e c’era addirittura l’orchestra. Ricordo davvero una bella serata, di ottimo livello.
Questo spettacolo è assolutamente da conoscere e vedere perché…
Vediamo… riassumendo quello che ho già scritto direi: importanti musiche, trattamento accurato di libretto e liriche, profondità dei personaggi, spettacolarità di alcuni brani, emotività, giusto mix di emozione e divertimento… E rispetto all’edizione che ho visto io, intelligenza nella messinscena, regia dinamica, interpreti straordinari…
Qualcosa di cui non abbiamo parlato…
Solo riportare una curiosità, che è un po’ una stranezza: lo spettacolo non è mai stato rappresentato professionalmente a Londra, patria sia di Elton John che Tim Rice, mentre ha conosciuto edizioni professionali praticamente in tutto il mondo. Davvero strano, dal momento che gli altri due musical di Elton John sono in scena a Londra tuttora, IL RE LEONE da 15 anni e BILLY ELLIOT da 9. Misteri del West End…
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N.B. Si ringrazia ulteriormente Fabrizio Angelini non solo per aver accettato la partecipazione alla rubrica, ma anche per l’ulteriore impegno di redazione scritta delle risposte.
Sito web ufficiale di Fabrizio Angelini: http://www.fabrizioangelini.com/
Si ringrazia Giuseppe Bonaventura del sito Bad side of the Moon – eltonjohnitaly.com per l’invio di parte del materiale fotografico pubblicato in questo articolo. A questo link la pagina dedicata ad Aida: http://www.eltonjohnitaly.com/aida-page.html
2 thoughts on “FABRIZIO ANGELINI PARLA DI AIDA (DI E. JOHN E T. RICE)”
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