MY FAVOURITE THINGS
di Ilaria Faraoni
Titolo: Jesus Christ Superstar
Anno: 1973 – tratto dall’album (1970) e dal successivo musical di Andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (liriche)
Presentato da: Universal Pictures e Robert Stigwood – Prodotto da: Norman Jewison e Robert Stigwood – Regia: Norman Jewison – Sceneggiatura: Norman Jewison, Melvyn Bragg -Direzione della fotografia: Douglas Slocombe – Scenografie: Richard Mcdonald – Direzione musicale: André Previn.
Cast: Ted Neeley (Jesus), Carl Anderson (Judas), Yvonne Elliman (Mary Magdalene), Barry Dennen (Pontius Pilate), Bob Bingham (Caiaphas), Kurt Yaghjian (Annas), Josh Mostel (King Herod), Philip Toubus (Peter), Larry Marshall (Simon Zealotes), Richard Orbach (John), Robert LuPone (James).
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TRAMA
La storia narra, dal punto di vista alternativo di Giuda, gli ultimi sette giorni di vita di Gesù, attraverso la rappresentazione che ne fa una compagnia di attori hippies giunti in Israele.
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CURIOSITÀ:
- Alcune liriche furono cambiate per il film, per renderle più accettabili da parte di un pubblico cristiano.
- Inizialmente Neeley aveva sostenuto il provino per il ruolo di Giuda, ma al termine dell’audizione il regista gli disse: “Fantastico! Perché non torni domani a fare “l’altro”?”.
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N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.
Foto di scena della versione teatrale di Gianmarco Chieregato
Si ringrazia particolarmente Dora Romano impegnata con lo spettacolo di Lillo & Greg Marchette in Trincea in scena al Brancaccio dal 23 febbraio
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Dora, perché hai scelto di parlare di Jesus Christ Superstar?
Perché il film musicale diede il colpo di grazia alla mia decisione di diventare un’attrice. Frequentavo il terzo liceo e da sempre mi interessavo di spettacolo, l’ho sempre avuto nel sangue. All’epoca facevo già degli spettacoli amatoriali, ma quando uscì Jesus Christ Superstar rimasi folgorata come San Paolo sulla via di Damasco. Decisi che non solo avrei fatto l’attrice, ma che avrei anche cantato.
Il film è un’opera eccezionale, l’ho rivisto in questi giorni e non trovo né una musica, né una parola fuori posto: ogni inquadratura ed ogni brano sono emozionalmente completi, rimandano ad un legame con la propria emotività molto forte; è un film perfetto, anche se fu molto criticato dagli intellettuali dell’epoca. Inoltre ha dato ai giovani di allora la consapevolezza di poter essere fuori dal coro. I movimenti del ’68 erano ancora in corso; in Italia la rivoluzione studentesca è arrivata in ritardo rispetto all’America: eravamo tutti in fermento, avevamo bisogno di credere che i falsi miti, le imposizioni ed il bigottismo che ci soffocavano, potessero essere abbattuti. Avevamo bisogno di avere una speranza di libertà, cosa che a me mancava molto: i miei genitori facevano parte dello stile di educazione ottocentesco; mio padre è nato nel 1905, mia madre nel 1915 ed erano entrambi del sud, lei siciliana, lui della provincia di Napoli. Una figlia aveva un destino già segnato: sposarsi, avere dei figli, restare in casa il più possibile. Io invece sentivo la necessità di spaziare, cercavo di strappare ogni giorno un minuto in più per poter respirare fuori casa quell’aria che mi mancava. Non voglio colpevolizzare i miei genitori: ogni epoca ha le sue leggi e le sue imposizioni.
Non essendo mai stata una cattolica fervente o osservante, mi piaceva l’idea di un Gesù hippie, che fosse lontano da quella figura santificata dell’iconografia classica; quello del film era un Gesù che pativa come qualunque essere umano. Devo dire, comunque, che le figure che più mi hanno affascinato sono state quelle di Giuda e di Ponzio Pilato.
Dal punto di vista artistico la fascinazione iniziale è stata data proprio dalla musica, dalle voci straordinarie degli interpreti. Avrò visto il film dieci o quindici volte ed ho qui davanti a me lo spartito, che conservo gelosamente: è un po’ rovinato per le tante volte che l’ho studiato e lo so tuttora a memoria. Mi è rimasto impresso nel cuore prima ancora che nella testa. Tutto ciò si conciliava con la mia necessità di espressione artistica molto prepotente: cercavo di fare di tutto; cantavo, recitavo, studiavo da sola dizione leggendo ad alta voce, ascoltavo di nascosto dai miei genitori, la domenica, le commedie in radio.
Perché di nascosto? Erano contrari al teatro?
Più che essere contrari, non lo conoscevano, non c’erano mai stati. La mia era una famiglia che non aveva interessi culturali. Mio padre lavorava tutto il giorno. Per mia madre la cosa più importante era che i figli studiassero, perché nello studio vedeva una sorta di riscatto sociale. Pensava che le donne dovessero diventare insegnanti; gli uomini medici o professionisti.
Sono l’unica della famiglia ad essersi laureata e studiare mi è servito moltissimo per aprire la mente e, contemporaneamente, coltivare la mia passione. Volevo diventare una performer, ma all’epoca non c’era nemmeno l’idea di scuole del genere; le uniche che esistevano in Italia erano quella di Paolo Grassi e l’Accademia d’Arte drammatica Silvio D’Amico.
Provai a dire mia madre che volevo andare a studiare recitazione ma lei, come tutte le donne del sud, non fiatò nemmeno: mi guardò semplicemente ed io capii.
Poi vinsi la borsa di studio con Vittorio Gassman e mi diplomai con lui, facendo esclusivamente affidamento sulle mie forze, sulla mia convinzione e determinazione.
Ed è stato proprio Jesus Christ Superstar che mi ha aiutato profondamente a decidere.
Parliamo dell’idea di Jewison, di raccontare tutto attraverso un gruppo di attori hippies che mette in scena gli ultimi giorni di vita di Gesù… è stata un’intuizione molto particolare.
Sì, ha avuto un’enorme intuizione. All’epoca era anche lui molto giovane e si è quindi identificato con i suoi coetanei. Gli anni Settanta erano nel pieno della Beat generation, del rock ‘n’ roll. L’espressività musicale dei giovani passava anche attraverso una sorta di aggressività: si passava da un tipo di melodie piuttosto delicate o melense all’arrabbiatura. I giovani rivolgevano alla politica, a chi reggeva le sorti del mondo, il loro “No” alla guerra del Vietnam, il loro “No” alle guerre in assoluto. Jewison ha saputo cavalcare molto bene quella ribellione. Raccontare con una sorta di meta teatro la storia di una compagnia che mette in scena gli ultimi giorni di Gesù è stato come un non voler essere troppo duro nel prendere posizioni, anche se il film conteneva vari messaggi propri dell’inquietudine del tempo. Si tocca il tema dell’apartheid, per esempio. Perché solo Giuda è nero? Era una tematica coraggiosa da affrontare in quegli anni e non dobbiamo dimenticare che esisteva ancora l’apartheid in Sudafrica.
Si esaminavano il bene ed il male presenti in Giuda come in Gesù.
Forse c’è anche il tema dell’omosessualità. Nella richiesta di Giuda di essere ascoltato c’è una grande dichiarazione d’amore. Ovviamente si parla di amore a carattere universale, ma io vedrei anche la tematica dell’omosessualità non dichiarata. Certo non è trattata come la si affronterebbe oggi: allora era un assoluto tabù, non se ne poteva parlare.
In effetti Giuda canta la reprise di I don’t Know how to love him.
Sì, credo proprio che per chi la voglia leggere, ci sia davvero questa tematica.
C’è anche il tema dell’individuo fuori dal coro, di colui che si ribella ad un ordine costituito, alla religione della folla che ha una psicologia di massa. Tutte le peggiori guerre sono state fatte grazie ad una manipolazione delle masse. Ciò che Giuda teme è proprio che il messaggio vero di Gesù, quello dell’amore, della condivisione, dell’uguaglianza, venga manipolato per interessi politici. Gesù viene vissuto come una vittima, una vittima delle sue stesse parabole, del suo stesso essere un personaggio, tra virgolette, “famoso”. Giuda si oppone al capo, di cui è oltretutto amico: è una scelta coraggiosa che Gesù non riesce ad accettare. Ad un essere umano fa comunque piacere essere popolare o essere osannato. Gesù e Giuda si accusano a vicenda di non capire, ma fra i due sappiamo che purtroppo ha avuto ragione Giuda: Gesù è stato crocifisso, ed è stato vittima di se stesso.
Questo perché in Jesus Christ manca totalmente il tema della Resurrezione…
Infatti: non poteva essere affrontato il tema della resurrezione, perché in questo modo si sarebbe celebrata la parte spirituale di Gesù, mentre questa storia non doveva essere affrontata con il misticismo: il misticismo ha altri argomenti. Fare un dibattito su questo aspetto sarebbe stato perdente. Nel film non ho mai visto il misticismo di Gesù, ma solo la sa umanità.
Anch’io in Jesus Christ non riesco a trovare la spiritualità o il messaggio di fede e di speranza, che molti, anche Ted Neeley, sostengono ci sia (vedasi servizio alla conferenza stampa al Sistina – cliccare QUI). Al contrario, percepisco la storia di una sconfitta terrena di Gesù. Quello che è avvenuto dopo rimane alla sensibilità del singolo spettatore, in base alle sue credenze, alla sua fede.
Sì, quello della fede è un discorso che volutamente Tim Rice nelle liriche, e Jewison nel film, non hanno affrontato. Proprio perché la fede è qualcosa di personale. Ritengo sia anche un fatto di massa. Come per quanto riguarda la figura del Buddha, la figura di Gesù ha le sue radici storiche nell’essere umano. Dai principi di questi personaggi illuminati si sono create poi delle religioni. Nel film questa parte mistica non poteva essere affrontata: si racconta di una compagnia di attori e ballerini di musical. Non potevano improvvisamente diventare tutti santi. Lasciando invece da parte l’aspetto religioso, la vita di Gesù ed il suo senso storico, non sono stati banalizzati.
Nel finale, quando gli attori salgono sul pulmino, mesti, quasi provati e Gesù/Ted Neeley non c’è, è come se qualcosa sia successa veramente.
Sì è l’unico aspetto un po’ misterioso, sospeso… L’ho trovata un’operazione estremamente intelligente e non manipolatoria. Come dire: “Credi a quello che vedi, ma anche a quello che può succedere, a quello che sarebbe potuto succedere se Giuda non avesse tradito Gesù, a quello che sarebbe successo se Gesù fosse vissuto fino a 80 anni”. È un finale aperto che non resta chiuso nella rigidità del dogma cristiano che impone: “Devi credere e basta!”.
In qualche modo Giuda si fa portavoce dei dubbi che può avere anche un Cristiano dei più convinti.
Sì, dubbi che ancora oggi un Cristiano ha e che aveva ancora di più negli anni Settanta: i giovani avevano moltissimi dubbi e nessuna certezza. Ci si chiedeva il senso della guerra, dell’amore, della politica, della religione. Io mi chiedevo tutto. Ora, dall’alto o dal basso dei miei anni, ho smesso di chiedermi tante cose: ho capito che la natura umana ha un sostrato uguale per tutti, in tutte le epoche. All’epoca sentivo molto il senso dell’ingiustizia e dell’inutilità dell’odio. Oggi ho capito che l’odio, a qualcuno, serve: serve a pochi. Non serve invece a quei moltissimi che si lasciano trascinare dall’odio di quei pochi.
Secondo te un giovane di oggi come può vivere queste tematiche? Come vede un’opera come Jesus Christ Superstar?
Credo che un giovane di oggi lo veda solo come opera in sé. Sono diventata amica di un mio fan, un ragazzo che a 17 anni ha visto Sister Act [l’edizione Stage Entertainment in cui Dora Romano interpretava la Madre Superiora, ndr] e ha deciso, grazie a quello spettacolo, di fare il performer. Proprio come è successo a me con Jesus Christ Superstar. Ora ha 21 anni. Questo ragazzo ha sentito la forza trainante dell’arte, della musica. La musica, se arriva dove deve arrivare, può cambiare una persona. Certo, oggi non ci sono le tematiche di quarant’anni fa, non c’è tutta quella rabbia. La rabbia ora viene riversata più contro se stessi che contro l’esterno. Ci si ubriaca, ci si droga, ci si sottopone a strane cose, ai tatuaggi, alle gare contro la morte, ma non per dire qualcosa: è semplicemente la manifestazione di un senso di inadeguatezza dei giovani di oggi nell’affrontare la vita così come è diventata per loro. Perciò credo che non ci sia una grande consapevolezza del significato politico e sociale di un film come Jesus Christ Superstar. Oggi c’è molta rassegnazione. Però il messaggio che possono dare il teatro, la musica, l’arte, soprattutto grazie agli spettacoli dal vivo – perché solo gli spettacoli dal vivo possono creare quell’alchimia, quella simbiosi, quella identificazione che la tv e il cinema non possono dare – è un richiamo che può folgorare chi è particolarmente sensibile. Ora questo ragazzo va a Londra a studiare e avrà una storia da raccontare ai suoi nipoti.
Devo dire che anch’io ora sono più consapevole delle tematiche di Jesus Christ. All’epoca mi identificavo più nelle canzoni, le cantavo tutte!
Sì, le canzoni passano dai bassi profondi, ai falsetti. Gli interpreti poi erano tutti musicisti, non stiamo parlando di gente improvvisata. avevano i loro gruppi musicali, suonavano, cantavano, componevano. Anche i danzatori erano bravissimi: parliamo di professionalità eccezionali.
La cosa strana è che ogni emozione di allora l’ho rivissuta ora, rivedendo il film in questi giorni. Ricordo esattamente dov’ero, con chi ero, com’erano i capelli, come mi sentivo. La musica fa anche questi miracoli.
A proposito di musica, parliamo di Webber, delle sue caratteristiche e di come ha lavorato in Jesus Christ Superstar.
Webber ha lavorato spaziando molto. Anche lui era molto giovane, ma diciamo che in lui le spinte emotive erano sicuramente meno prepotenti: veniva da un’ottima famiglia di artisti, ed egli stesso era un musicista preparatissimo. Webber è riuscito a interpretare la storia attraverso il rock e Jesus Christ è la prima opera rock mai fatta: non ci sono battute, soltanto alcuni recitativi. Webber ha interpretato in maniera favolosa la spinta energizzante del rock, ma ha attinto anche alla sua esperienza classica: con i cori e le atmosfere di ampio respiro è riuscito ad esprimere una capacità interpretativa straordinaria, completa. Ha inventato un genere. Poco dopo è arrivato Tommy. Parliamo sempre di opera rock e anche quel film è da considerarsi un evento storico, però è arrivato sull’onda di Jesus Christ Superstar e ha creato un altro tipo di pubblico. La capacità di Webber è stata quella di spaziare in vari generi musicali all’interno della partitura e di riuscire a creare per ogni scena, addirittura per ogni pensiero, un’atmosfera musicale. È come se fosse stato l’interprete delle sue stesse musiche. Un attore studia un personaggio in tutte le sue sfaccettature, per poter entrare nel suo modo di essere. Webber ha fatto questo in ogni musica, in ogni piega dello spartito e della voce. Questa abilità lo ha portato ad essere il più grande. Alan Menken, ad esempio, ha preso molto da Webber e Rice. Webber è stato l’autore di musical storici: non sono una musicista, ma la sua abilità è impressionante. A parte l’accusa di aver preso le mosse da Mendelssohn per quanto riguardava un pezzo…
Sì, quasi per ogni brano è stato accusato di aver copiato da altro. Alcuni accostamenti sono anche abbastanza arditi. Quasi un voler criticare ad ogni costo…
Quando si incontra il genio, è difficile che le persone, diciamo, “meno geniali”, riescano ad accettarlo!
Oltretutto, spesso quando ci entusiasma per qualcosa o per qualcuno si viene fraintesi; al contrario la critica può diventare quasi una necessità e un sinonimo di intelligenza…
Criticare è anche un modo per farsi accettare, per attirare l’attenzione su di sé. Webber ha fatto talmente tante cose… Un musicista, così come uno scrittore, è anche il frutto di ciò che ha ascoltato, di ciò che l’ha formato e da cui ha preso ispirazione. Ci sono forse canzoni che possono ricordarne altre, ma secondo me va tutto al di là della sua volontà. Certo, il plagio esiste, ne abbiamo visti diversi esempi, ma non credo sia il caso di Webber: anche se avesse preso da Mendelssohn una sequenza di note, ci può stare: perché no? Sicuramente sarà stato ispirato da un musicista grande come Mendelssohn. Webber non ha mai perso una causa. Con ogni opera che ha scritto, ha dimostrato di essere sempre più bravo. Quale miglior prova di questo? La creatività non ha limiti; al contrario, se si copia, si arriva ad un punto in cui non si ha più niente da copiare.
Come hai già notato, Jesus Christ ha brani molto vari, atmosfere che contraddistinguono i singoli personaggi in modo preciso. Bisogna dire che non sempre accade, in un’opera musicale…
Sì. Ad esempio all’epoca trovai Tommy un po’ noioso: è un’opera di rock duro, forte, ma sempre uguale. Tutte le atmosfere create dalla musica all’interno di Jesus sono invece perfettamente connesse con la storia, con i personaggi e con le emozioni dei personaggi. Per un attore questo è un grande esempio di identificazione: identificarsi con la musica è molto difficile. È più facile lavorare su un testo da recitare: ci sono virgole, punti, punti e virgola, pause, cambi. In Jesus Christ tutto il clima è creato dalla musica e solo dalla musica. Ci sono anche i testi, chiaramente, ma non tutti conoscono l’inglese, nemmeno io lo sapevo bene all’epoca: per me le canzoni erano più che altro suoni. Per questo motivo comprai il libretto, lo spartito: volevo entrare dentro le parole, da attrice. E posso dire che c’è una completa sovrapposizione e identificazione tra la musica, i personaggi e le atmosfere che ha saputo creare Jewison. Ho letto in un articolo che Webber si disinteressò del girato, anche perché Jewison voleva fare tutto da solo, ma sicuramente il regista è stato ispirato all’80% dalle musiche: ha preso e messo in atto tutto quello che la musica gli ha ispirato ed il risultato è stato miracoloso. Non riesco a trovare un solo errore nel film.
Uno de personaggi in cui mi sono identificata, è stato quello di Maria Maddalena, anche perché è l’unico personaggio femminile… non c’è nemmeno la Madonna.
Certo, ed è un’assenza significativa.
Sì: non c’è la Madonna, ma c’è una prostituta: questo era estremamente rivoluzionario, all’epoca.
Anche la figura di San Pietro è molto marginale.
Sì, molto marginale.
Prima hai detto che, oltre a Giuda, il personaggio che più ti affascinava era Ponzio Pilato. Perché?
È un personaggio che, per quanto breve, è di una estrema intensità. In lui si vede il conflitto fra la ragion di Stato e la ragione umana con i suoi sentimenti: è un conflitto antico, atavico; è uno dei temi sempre presenti nella tragedia classica, romana e greca, che evidenzia come il bene di tanti possa significare il male di pochi: una tematica estremamente affascinante. Il conflitto, nella interpretazione di Barry Dennen, è palese (il video QUI). Mi sono innamorata della figura di quest’uomo che racconta il suo sogno premonitore della condanna di Gesù, una condanna indiretta, perché il non agire di Pilato permetterà la morte di un individuo. “Non mi pronuncio, affinché si pronunci il popolo”: anche questo ragionamento equivale ad una decisione. Purtroppo non ho assistito, in teatro, alla reunion italiana tra Ted Neeley, Barry Dennen e Yvonne Elliman. Ho visto in scena solo Ted Neeley, nell’ultima replica dell’anno scorso.
È interessante osservare e comparare la sua interpretazione cinematografica di oltre quarant’anni fa e quella teatrale di oggi. Oltre alla differenza data dal mezzo espressivo ci sono tanti fattori che incidono: regia, età diversa, esperienza maturata, studi… Neeley ha spiegato di aver intrapreso una ricerca personale, continuato a documentarsi, leggendo per esempio tutti i vangeli gnostici…
Diciamo che Neeley ha avuto un processo di identificazione con il personaggio che in molti attori o musicisti avviene. Nel corso degli anni ha interpretato molte volte Jesus. Ho visto anche Carl Anderson nell’edizione del 2000, sempre firmata da Massimo Romeo Piparo. La potenza espressiva di Anderson era fortissima, mi fece un’impressione straordinaria, nonostante gli anni passati. Era identico, sia come voce, sia come fisicità. Non ricordo chi fossero in quell’edizione Gesù e Maddalena. Ma Anderson mi colpì moltissimo. Feysal Bonciani, che ora interpreta Giuda, è bravissimo, gli ho fatto i miei complimenti. Un’ulteriore conferma è arrivata con Ted Neeley: al di là di una ieraticità imposta dal luogo – perché i teatri italiani sono piccoli rispetto a quelli di Broadway e del resto del mondo – anche lui è rimasto uguale. La potenza della voce e l’espressività sono come quelle di quarant’anni fa. Devo dire però che mi aspettavo più distacco da parte dell’artista: forse ora ci crede un po’ troppo.
In scena o fuori scena?
In scena e fuori scena. È una persona che accoglie e che abbraccia tutti ed anche per me ha avuto parole molto belle: ho avuto la fortuna di essere introdotta da lui prima che uscisse per salutare i fans che aspettavano fuori una sua parola, una sua firma, un suo abbraccio. La ieraticità che si nota sul palco, ce l’ha anche nella vita: è quasi come se non uscisse mai dal personaggio di Gesù e questo lo banalizza un po’… Però ho parlato con Emanuele Friello, che si è occupato della direzione musicale di Jesus Christ e mi ha parlato di Ted Neeley come di una persona straordinaria, di una umiltà, di una calma e di una serenità uniche: non ha mai creato problemi, si è messo sempre a disposizione, al contrario di tanti divi, “divetti” e “divoni” italiani che impongono la loro presenza, il loro carattere, le loro decisioni. L’umiltà e la disponibilità sono qualità che ho notato soprattutto negli artisti anglosassoni. Ho lavorato con Dustin Hoffman e con alcuni attori della BBC e posso dire che hanno tutti un approccio davvero molto umile. Sono dei gran professionisti e non lo fanno pesare. Il problema è anche del pubblico, che crea una distanza, che vede certi personaggi come intoccabili, come esseri superiori. Hoffman ha vinto degli Oscar eppure è di una assoluta semplicità, umanità, intelligenza, carineria… era un mio collega di lavoro e come tale mi ha trattata. Si lavora ad un progetto comune, si lavora perché questo progetto piaccia alla gente e dica qualcosa.
Ted Neeley è una persona così, quindi se da un lato questa identificazione così marcata un po’ mi delude, dall’altro va bene, perché è supportata da una sua reale umiltà nella vita, come mi hanno confermato Emanuele e Massimo Piparo. L’importante è credere in qualcosa e non fare di se stessi un mito e non credo sia il suo caso. Neeley si è messo semplicemente al servizio della sua arte.
Probabilmente il ruolo di Gesù gli è entrato talmente dentro da svegliare in lui la necessità di farsi delle domande e cercarne le risposte.
Sì, più che altro credo sia così.
A questo proposito, quanto un ruolo può aiutare un artista nella propria crescita personale e addirittura cambiarlo?
Dipende dall’artista, se sia disposto o meno ad imparare dai suoi personaggi. La varietà di elementi che un attore ha a seconda dei personaggi che interpreta, è una grande ricchezza personale e non solo: dà materiale per costruirne di nuovi. Certamente interpretare sempre lo stesso personaggio per anni, per decenni, come è successo a Neeley, forse può ingabbiare un attore e alcuni sono rimasti imprigionati dai propri personaggi, spesso anche per volontà degli altri. A volte si può restare vittime per comodo, perché fa piacere il riconoscimento, o per pigrizia: un attore si affeziona molto ai personaggi che interpreta. Ma la capacità di uscirne, per poi rientrarvi ogni sera e ricominciare da capo, è importantissima ed è un lavoro molto affascinante. Anche mio marito, che è fonico da quarant’anni, trova che sia un’avventura stimolante arrivare in un posto, dopo tanti chilometri, costruire uno spettacolo e la sera stessa distruggerlo per costruirlo in un altro luogo: non sai cosa troverai, quale pubblico, quali difficoltà, quante cose belle o brutte. L’importante è non farci mai l’abitudine.
Se non c’è un certo distacco si può anche venire travolti da determinate emozioni che si portano in scena.
Sì, alcuni attori, soprattutto gli americani, sono rimasti travolti dai propri personaggi tanto da non avere più spazio, da trovare addirittura la morte: penso a Marilyn Monroe o a James Dean: si può arrivare ad una esasperazione del nostro mestiere; probabilmente se accade è perché mancano altre ragioni di vita, ci sono delle carenze che non si riescono a riempire; il lavoro diventa l’unica ragione di vita ed anche motivo di morte.
Neeley, Anderson, la Elliman, Dennen… Da attrice vuoi aggiungere qualcosa sulle singole interpretazioni?
La loro capacità interpretativa attraverso il canto è straordinaria ed è da loro che, come dicevo, ho preso lo spunto per lo studio che ho ripreso da poco, perché in precedenza ho fatto molto teatro di prosa, anche se all’interno degli stessi spettacoli, quando si presentava l’occasione di cantare, ero sempre la prima ad offrirsi. Non ho mai rinunciato a cantare.
Ciò che mi interessa di più è studiare come scivolare con la voce attraverso i due moduli interpretativi, la recitazione ed il canto, inserendo la recitazione nel canto e viceversa. Non si deve mai notare il passaggio tra le due cose, non deve essere un trauma per chi ascolta. Una cosa che noto purtroppo vedendo molti performer è che ad un certo punto arriva la musica e l’interprete si pone nella postura:“Adesso io canto”.
L’ho notato anch’io. A volte è il performer stesso a porsi male, a volte è anche la struttura di un determinato spettacolo che evidenzia “Il momento della canzone” o “Il momento del balletto”.
Io penso sia più una questione registica e interpretativa. Ho sperimentato che le cose possono non essere così. Però bisogna studiare bene questo passaggio per non far capire a tutti “Ecco, adesso canto e canto bene”. Questo effetto si può evitare solo attraverso lo studio del personaggio. Molte volte i performer dimenticano il personaggio che stanno interpretando, dal punto di vista della recitazione, e cominciano a cantare.
A volte cambiano addirittura voce, rispetto alle parti recitate…
Penso che questo gap debba essere superato: è troppo evidente e poco interessante. Parlo da attrice che canta, perché non posso definirmi una cantante che recita: credo che il musical abbia bisogno di attori che cantano e non del contrario. Non so come sarebbero stati Neeley, Anderson, la Elliman e Dennen se avessero recitato delle battute, però la loro completa identificazione con i personaggi attraverso la loro performance canora è stata totale.
Il personaggio deve essere sempre presente, sia nella voce, sia nella fisicità, sia nell’espressività: non lo si deve dimenticare per una bella voce, per una perfomance perfetta, per un acuto venuto bene. Questa è la forza di un film come Jesus Christ Superstar.
Concordo. Credo che sia giusto sporcare un po’ la voce a favore dell’interpretazione. In una scena di morte, se un attore canta come se fosse ad un concerto, non ha senso.
Sì. Nell’opera lirica, che ha le sue leggi, anche se stai morendo devi fare un acuto perfetto, altrimenti ti fischiano dal loggione; ma il musical è un’altra cosa. Stiamo parlando di uno spettacolo che ha altre formule espressive, quelle della teatralità più assoluta. Il personaggio deve essere vero e ed è drammaturgicamente credibile se lo si mantiene fino in fondo.
Abbiamo già parlato in parte dell’edizione italiana di Massimo Romeo Piparo. Come l’hai trovata?
Dell’edizione di Piparo ho molto patito l’esiguità dello spazio scenico. Ho apprezzato moltissimo invece l’orchestra, strepitosa. Avendo impresso nel cuore e nell’anima il film e non avendo mai visto la versione teatrale del musical, lo spazio sempre uguale a se stesso, con pochi movimenti e aperture spaziali, mi è sembrato un po’ limitante. Un elemento che ho trovato molto distraente è stato poi l’uso dei sopratitoli con la traduzione in italiano.
Sopratitoli che in alcuni casi erano citazioni dei brani del Vangelo: cosa ne pensi?
Non ne ho compreso il senso registico.
Per me si è corso il rischio di allontanare chi non conoscesse il libretto, dal senso originale dell’opera. Forse si è voluto avvicinare, in questo modo, un pubblico più tradizionalista…
Forse un pubblico più anziano: la media dell’età del pubblico del Sistina è abbastanza alta anche se c’erano molti giovani. L’originalità di Jesus Christ Superstar è proprio, come dicevo prima, l’assenza di qualsiasi elemento dell’ordine costituito dalla Chiesa. La visione di Giuda e di Gesù sono completamente diverse dal sentire comune. Nel film si vedono i lati positivi e negativi di entrambi, perché l’uomo è fatto così, di oscurità e di luce. La visione un po’ manichea di questa versione, il voler inserire citazioni evangeliche, forse dipende dalla volontà di rivolgersi ad un pubblico cattolico e poco rivoluzionario.
Ed i punti di forza?
Sicuramente Ted Neeley e Feysal Bonciani. Anche gli interpreti di Caifa ed Hannas erano dei bravi performers [il riferimento è all’ultima replica della scorsa stagione teatrale, ndr]. Trovo nelle voci una grande aderenza a quelle del film. È un fatto positivo, anche perché il range tecnico doveva essere per forza di un certo tipo: la partitura è molto difficile e ha bisogno di un determinato tipo di caratterizzazione vocale per ogni personaggio. Se chiudevo gli occhi, mi sembrava di ascoltare il film. Un’ottima scelta è stata poi quella di mantenere lo spettacolo in lingua originale.
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