Intervista a Franco Travaglio
di Enrico Zuddas
Per dare spessore alle nostre considerazioni sulle traduzioni dei musical (leggi qui la prima parte) non potevamo avere un supporter migliore di Franco Travaglio. Fondatore, ormai vent’anni fa, in epoca pre-social, del sito amicidelmusical.it e ideatore del premio PRIMO, giunto quest’anno alla quinta edizione, nonché autore di musical, Franco è noto ai più come il più importante e fertile traduttore di musical in Italia. A lui si devono quasi tutti gli adattamenti ufficiali delle opere di Andrew Lloyd Webber (Joseph, Jesus Christ Superstar – insieme con Michele Renzullo, Cats, Phantom of the opera – in collaborazione con Fiamma Izzo, Masolino D’Amico e Giovanni Baldini, Sunset Boulevard), nonché di alcune produzioni targate Disney (High School Musical, Beauty and the Beast, e ora Mary Poppins), come pure di altri titoli importanti quali Sister Act, il nuovo Grease, Frankenstein Jr., Flashdance e La Febbre del Sabato Sera.
Dal momento che hai praticamente tradotto quasi ogni musical di rilievo in Italia, quali sono le traduzioni di cui sei più orgoglioso? Ce n’è qualcuna su cui rimetteresti le mani?
Le traduzioni che mi danno più soddisfazione sono non tanto quelle metricamente corrette ma quelle dove prevale l’aspetto comico, che è tanto difficile quanto divertente da rendere, come Sister Act e Frankenstein Jr.: tra l’altro entrambi questi titoli hanno avuto produzioni bellissime sotto ogni punto di vista. Poi ci sono i musical di Lloyd Webber e Menken, che sono già belli in partenza per cui alla fine risulta più facile farli. Rifarei invece le mie prime traduzioni, come quella di Joseph, perché a inizio carriera avevo meno accortezze e meno strumenti, o lo stesso Phantom, che era condizionato dal lip-sync, mentre a teatro avrei modo di rivederlo completamente.
Parlando di strumenti, quali sono le priorità di un traduttore?
Col tempo capisci che essere letterali è inutile, è diverso dall’essere fedeli, perché spesso devi rinunciare a inserire le parole originali; a volte più ci si allontana più si riesce a esprimere i concetti e a rispettare l’intento originale di una canzone o di un dialogo, come far provare un’emozione, suscitare una risata, presentare un personaggio. Con il tempo si affinano anche le regole di metrica e soprattutto si impara ad abbinare un certo tipo di parole a un certo tipo di musica. La traduzione non deve suonare come una traduzione, ma deve sembrare un originale: la cosa migliore che può accadere a un traduttore è di non essere citato in una recensione, perché è un po’ come se il critico non si fosse accorto che l’opera è stata tradotta!
Questo mi consola del fatto di non essere stato citato nella recensione, postata in questo sito, a Bernarda Alba, da me tradotto! Ma quando non ci si attiene all’originale, non c’è il rischio che non venga approvata la traduzione da parte di chi detiene i diritti?
In generale non ho avuto mai problemi di approvazione da parte degli autori, se non la richiesta di qualche modifica; ad esempio in High School Musical la Disney ha chiesto di eliminare il termine “idiota” usato in riferimento al rapporto tra Ryan e Sharpay. Al contrario, gli autori comici si mostrano propensi a cambiare un dialogo se un certo tipo di comicità non funziona in Italia: non sono interessati a come si ottiene una risata, ma a che la si ottenga.
Cosa pensi dell’inserimento di riferimenti nazionali, in particolare geografici, nei musical stranieri? Ad esempio in Sister Act hai usato uno strano cenno al carnevale di Viareggio, oppure in Cats i nomi delle città visitate dal treno di Sghemboexpress sono italiani (Forlì, Cefalù, Bastia).
È una questione di gusti: a volte è la produzione o la regia a chiedere la battuta, a prescindere dalla verosimiglianza. Nel Sister Act della Stage Entertainment quel passaggio – un’idea di Alberto di Risio, autore di Fiorello, mio consulente per le battute – arrivava del tutto inaspettato e proprio per questo suscitava un boato in platea, invece nella versione Rancia Saverio Marconi ha preferito cambiare in un più credibile “carnevale di Rio”, che in realtà funzionava ugualmente. Per quanto riguarda Cats, tutte le edizioni vengono riambientate, anche quella francese ad esempio; del resto, trattandosi di un testo poetico, può essere utile avvicinarsi al pubblico personalizzando i nomi stessi o calandoli nella realtà locale.
Quello che mi interessa sottolineare è che mai queste scelte (a volte imputate esclusivamente a noi) avvengono in totale autonomia, perché noi traduttori siamo condizionati alla volontà del regista o della produzione.
A questo proposito, non capisco perché il concetto del ‘tradire’ si applichi solo alla traduzione dei testi. L’adattatore è solo uno dei componenti del team creativo di un musical. Tradirà qualcosa dell’originale e ci metterà del suo esattamente come un performer, un costumista, un regista, un coreografo, uno scenografo, un direttore musicale. Non si tratta di limitare nessun danno ma di considerare l’opera d’arte come qualcosa di vivo e in continua evoluzione. Diversamente la chiudiamo in un museo, dove sarà immutabile e intoccabile, ma non darà più emozioni a nessuno.
Parlando di produzione, che differenza c’è tra lavorare per la Stage o per la Rancia o per una scuola? Ci sono modi e approcci diversi?
Ogni produzione ha le sue esigenze e quindi sta alla bravura del traduttore capire come calarsi nelle singole realtà. La Stage Italia, a parte le due versioni di Flashdance, ha sempre messo in scena format stranieri avvalendosi di registi stranieri, e quindi si tratta di spettacoli già sperimentati all’estero e solo da rimontare, cosicché la traduzione si deve legare a una macchina registica, coreografica, produttiva già esistente e non può spaziare più di tanto. Al contrario con la Rancia si lavora su revival sempre nuovi, dove le scelte di testo possono offrire spunti per nuove regie e dare input per la messa in scena di uno spettacolo tutto nuovo. Nelle produzioni più piccole il tempo e il budget sono inferiori, cosicché spesso si crea una cosa e il team creativo la metterà in scena così com’è, senza che avvengano riunioni per confrontarsi.
Che mi dici a proposito delle nuove versioni di spettacoli già tradotti come La Bella e la Bestia o Grease? Quanto si è condizionati dalla versione preesistente?
La difficoltà è proprio questa: già si hanno poche scelte in partenza, in casi simili non si può nemmeno utilizzare quello che è frutto della creatività del precedente traduttore, salvo il caso di espressioni come ad esempio “Dimmi dai” che traduce letteralmente “Tell me more” in Summer Nights. La prima traduzione di Beauty and the Beast era in realtà quella, decisamente poco fedele, del film, per cui la produzione ha espressamente preteso che fosse cambiata, chiedendo tra l’altro di ripristinare il concetto di “Beauty and the Beast” nella canzone omonima: nel film era tradotto con “la felicità”, mentre a me è stato permesso di aggiungere una nota all’inizio della frase come nella versione tedesca, per arrivare a “la Bestia insieme a Belle”.
La bellezza di una resa spesso è condizionata dall’abitudine: avendo conosciuto il Phantom nella versione tedesca, per molto tempo a me suonava male quella inglese! Il mio Greased Lightnin sembra strano o sbagliato perché è differente da quello del primo Grease, ma in realtà ho solo ripristinato la metrica originale che era stata cambiata.
La canzone in assoluto più difficile?
School Song, che ho tradotto per una serie di stage su Matilda. Ogni frase presenta una lettera dell’alfabeto (che viene mostrata nella scenografia) e quindi anche la traduzione deve avere questa caratteristica. E poi, a livello di responsabilità, direi Memory, che è un mostro sacro, sebbene poi risulti più facilmente adattabile essendo più “italiana” di quanto si possa immaginare.
Sogno nel cassetto?
Senz’altro i grandi classici: Les Misérables, Wicked, Phantom of the opera, che amo particolarmente e che non sono mai arrivati in Italia.
Credi che sia possibile portare uno spettacolo come Wicked in Italia? È solo un questione di spesa o la storia non è sufficientemente conosciuta in Italia?
L’aspetto economico è il problema principale, come mostra anche l’assenza nei nostri cartelloni del Phantom, che pure è vicino alla nostra cultura: ci sono troppi paletti e nessuno si sente di rischiare su un titolo del genere. Wicked è ancora più difficile: sarebbe un peccato allestirlo in forma “vorrei ma non posso”, ma messo in scena col format originale costerebbe troppo; servirebbero due anni di repliche consecutive nel medesimo teatro, mentre nessuna produzione finora è durata più di sette/otto mesi.
C’è un musical che non dovrebbe essere tradotto?
Forse Hair, la cui cultura è legata alle parole più che alla trama, o certe canzoni di Cole Porter dove le parole si intrecciano alla musica in modo inscindibile, con giochi lessicali e termini scelti per come suonano. Però non mettiamo limiti: tutto è intraducibile finché non lo traduci!