Dalla lirica al rock musical: ecco come sono cambiate le voci del musical
di Enrico Zuddas*
Quando ho cominciato, circa venti anni fa, a interessarmi al musical, la situazione era molto diversa da quella odierna. Basti pensare che, se si voleva vedere uno spettacolo a Londra o a New York, si doveva andare lì senza biglietto, perché non esistevano rivendite online. Lo stesso vale per i dischi: le principali incisioni si potevano forse reperire da Ricordi a Milano o presso qualche rivenditore ben fornito, ma il più delle volte ci si doveva affidare all’acquisto effettuato di persona fuori confine; non era certo pensabile trovare un audio gratis su internet.
Anche nell’ambito della formazione non esisteva niente di specifico. Gli stessi performer di musical in Italia all’epoca – come nel primo Chorus line o nel primo Grease – erano in generale non persone provenienti da accademie specializzate, ma talenti “naturali” o che al più avevano studiato le varie discipline separatamente. Quando ci si avvicinava allo studio del canto, non esistendo assolutamente un insegnamento specifico, non ci si poteva che rivolgere alla tecnica lirica, che sembrava offrire input più vicini alla tecnica musical rispetto al pop.
Non si può negare che il musical abbia molti aspetti in comune con la lirica. In primis la sua teatralità: i pezzi sono parte di una storia, hanno un prima e un dopo, e sono cantati da un personaggio. Senza citare quei musical che sono quasi “crossover” con l’opera, come Porgy and Bess o West Side Story, ancora oggi ci sono musical dove il canto legit (ovvero con impostazione classica) la fa da padrone: in particolare The phantom of the opera, che ha appena festeggiato il suo trentennale a Broadway, o il più recente The light in the piazza. Ma è operistica anche la nuova Aria aggiunta da Menken allo score cinematografico di Beauty and the Beast:
Il genere musical deve molto anche alla tradizione del Singspiel (che prevede recitativi non cantati e dove l’azione non è sospesa nel canto) e dell’operetta: da quest’ultima derivano l’esigenza di intrattenimento leggero, l’elemento del ballo, la presenza di una “coppia comica”, che fa da contraltare alla coppia seria dei protagonisti (ad esempio, ne La Vedova Allegra, Valencienne e Camille, in opposizione a Hanna e Danilo) e che si è trasferita in molti musical, come Showboat (Frank e Ellie) o nei Thénardier di Les Miserables.
Lo stile europeo, elegante e arguto, è fortemente presente nella scrittura di Cole Porter. Ma il musical è come il paese che lo ha generato: un melting pot. Non si possono non considerare molteplici altre influenze, prima fra tutte quella della musica nera. Questa diverge totalmente per strutture armoniche (la scala blues è “anomala” rispetto a tutte le altre), per senso del ritmo (straight vs. shuffle), per vocalità (si pensi alla voce sporca o allo scream). Questo tipo di competenza è imprescindibile per chi canta il musical, e non solo quelli “neri” sul genere di Aida o Memphis o The Color Purple.
Se ascoltiamo Take me or leave, di Rent, la presenza incalzante del lab (nota estranea alla tonalità di fa maggiore) dà un colore molto “black” a tutto il pezzo:
Spesso si afferma che l’elemento distintivo di un’opera da un musical è l’utilizzo del microfono ma, se si riflette bene, questa distinzione non esisteva fino a cinquant’anni fa. Anche i cantanti di musical dovevano essere in grado di proiettare la loro voce per superare la barriera orchestrale. Progressivamente, dagli anni ’30, alla voce lirica si affiancò quella del belter, molto squillante, più vicina al parlato, prima usata solo per i “caratteri”. Questa tipologia è ben esemplificata dal corposo twang di Ethel Merman:
Nel 1930, la ventiduenne attrice sorprese George Gershwin per la sua capacità di sostenere un do4 in voce di petto per sedici battute in “I Got Rhythm” in Girl Crazy. Anche Cole Porter la adorava perché, a suo dire, poteva sentire ogni parola che aveva scritto in ogni canzone che cantava. La leggenda vuole che un giorno, durante una replica di Gypsy in tour, Jule Styne attivò i microfoni senza dirglielo. In realtà microfoni fissi a terra – collocati vicino alla ribalta – furono utilizzati già a partire dagli anni ’40 (Carousel, nel 1945, fu l’ultimo spettacolo di Rodgers e Hammerstein a non utilizzarli), per poi essere sostituiti da radiomicrofoni nel decennio successivo (Funny Girl, nel 1964, fu il primo show a Broadway a usare body mikes), spesso con effetti esilaranti perché intercettavano frequenze esterne (succedeva ancora negli anni ’80, per esempio durante Starlight Express).
Numerose le conseguenze, non solo a livello di tecnica vocale (la voce microfonata è percepita da alcuni come più spersonalizzata), ma anche di regia (con la possibilità per gli attori di voltare le spalle al pubblico, prima inconcepibile), di costumistica (il bodypack è un grande disturbo per chi balla), nonché di costi (il record va a Beauty and the beast, con un budget di un milione e mezzo di dollari solo per il suono).
Il cambiamento colossale è da collocarsi però alla fine degli anni ’60, quando l’avvento dei rock musical, come Jesus Christ Superstar e Hair, che fanno ricorso a strumenti amplificati e alla batteria, impose una revisione di tutto l’apparato acustico:
Esiste un’ultima grande differenza tra la voce del musical e il belcanto: nel musical non esiste un pregiudizio estetico. Una voce nell’opera deve essere principalmente bella, proiettata, piena di armonici. Alla voce del musical si chiede prima di tutto di adattarsi al personaggio, cosicché a volte può non essere timbricamente bella, ma attorialmente perfetta. Se pensiamo a Patti LuPone, non possiamo dire che il colore della sua voce sia di per sé entusiasmante, eppure è sempre impeccabile oltre che riconoscibilissimo:
Ma nel musical contemporaneo sono riscontrabili anche altre tendenze. All’approccio classico, come quello alla Julie Andrews per intenderci, e al belter tradizionale, che riconosciamo in Patti LuPone o nella Liza Minnelli di Cabaret, si è affiancata e imposta una vocalità più pulita e brillante, che richiede ai cantanti di gestire la parte alta del registro con suono preciso, senza il vibrato e la eccessiva rotondità delle vocali che contraddistinguono la lirica. È quella che identifichiamo subito come tipica “voce da musical”, come quella di Eva Noblezada in Miss Saigon o di Ben Platt in Dear Evan Hansen:
Oltre a questa ne esiste una simile ma che è più sensibilmente influenzata dalle tendenze del pop contemporaneo, con abbellimenti mutuati dall’ R’n’B, cambi di registro più accentuati, vocalità più ruvida o soffiata – per non parlare di Hamilton, che ha “sdoganato” il rap a Broadway (e solo pochi anni prima lo stesso Miranda aveva portato i ritmi e le sonorità della musica latina con In the heights). È la complessa scrittura adottata da Sara Bareilles per Waitress, e forse non è un caso che i direttori del casting fatichino a trovare attrici adatte per il ruolo di Jenna:
Ma la stessa Jessie Mueller, affrontando un classico del repertorio dell’“età dell’oro di Broadway” come Carousel, impiega una vocalità tutta diversa:
Un esempio estremo di duttilità si può riscontrare in Wicked, dove tre diverse sfaccettature del personaggio di Glinda sono espresse attraverso tre differenti modalità vocali: la sua parte “pubblica” e ufficiale attraverso una voce operistica (No one mourns the wicked), la parte buffa attraverso una voce molto americana ed enfatizzata (Popular), la parte più intima attraverso una voce quanto più possibile naturale (For good).
A costo di specializzarsi in un esclusivo sottogenere, un performer dovrà dunque possedere una tecnica vocale molto trasversale, in grado di adattarsi agli svariati stili che il musical racchiude in sé come genere.
* Il presente contributo scaturisce da una masterclass da me tenuta al Conservatorio di Musica “F. Morlacchi” di Perugia nell’ambito del “Voice Week” lo scorso 5 marzo 2018.