Tradurre un musical significa sempre tradirlo?
di Enrico Zuddas
L’italiano è, da Monteverdi in poi, la lingua per eccellenza del teatro musicale. Lo stesso Mozart volle scrivere in italiano, con il librettista Lorenzo Da Ponte, la trilogia di opere che lo rese celebre: Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787) e Così fan tutte (1790). Ma solo un anno più tardi pubblicava Il flauto magico in lingua tedesca: dietro c’era l’influsso del Singspiel, una forma popolare che prevedeva l’inserimento di canzoni e dialoghi parlati. L’intento era di rivolgersi a un pubblico il più vasto possibile: quello stesso pubblico che effettivamente ne decretò il successo, appassionandosi alle avventure di Papageno:
Il musical è per sua stessa natura una forma di intrattenimento popolare, per cui è sempre stato tradotto in tutte le lingue. È vero che esistono musical d’élite come quelli di Stephen Sondheim, ma in questi proprio il valore intellettuale del testo esige di fare in modo che venga compreso. Trattandosi di teatro, il messaggio veicolato non deve essere sottomesso all’esecuzione musicale: un performer di musical è prima di tutto un attore e il suo obiettivo non è certo sentirsi dire “come canti bene”.
Qualcuno potrebbe proporre in alternativa il ricorso ai soprattitoli come nelle opere liriche: ma non è proprio lo strumento adatto per un genere popolare; il melomane spesso è un colto lettore, ma, ad essere sinceri, a volte sarebbe meglio ignorare i testi di certe arie d’opera che amiamo…
Mi si perdonerà il ricorso a un aneddoto personale. Come per tutti i “talebani del musical” anche i miei primi esperimenti di messa in scena sono stati rigorosamente in lingua inglese. Da purista ritenevo che solo la lingua inglese fosse la lingua del musical: ed è innegabile che in inglese un musical suoni meglio. Così, circa dieci anni fa, ho allestito – per la prima volta in Italia – una versione di Aida di Elton John e Tim Rice che vedeva la partecipazione di Luca Notari come Radames. Tutti ricorderanno il bellissimo assolo del secondo atto, in cui Aida riflette sul suo destino, combattuta tra la scelta di salvare suo padre e il suo popolo e quella di cedere all’amore per il suo nemico:
Dopo la prima mio padre, persona di cultura, docente universitario, che però appartenendo a un’altra generazione ha studiato il francese e il tedesco e non l’inglese, mi propone di togliere il pezzo – è lungo, c’è lei da sola in scena e non succede niente; non basta la bravura dell’interprete a salvarlo! Questo episodio mi ha indotto a riflettere sulla necessità di rendere accessibile il testo nel suo valore e mi ha spinto ad adottare, nella versione successiva (interpretata da Francesca Taverni e Antonello Angiolillo), la lingua italiana. Questo il risultato:
All I have to do Is to pretend I never knew him On those very rare occasions When he steals into my heart Better to have lost him When the ties were barely binding Better the contempt of the familiar cannot start It’s easy, it’s easy Until I think about him As he was when I last touched him And how he would have been Were I to be with him today Those very rare occasions Don’t let up, they keep on coming All I ever wanted and I’m throwing it away It’s easy, it’s easy… as life |
Fingerò che sia come un perfetto sconosciuto Quando il suo raro ricordo Dentro a me riaffiorerà Meglio averlo perso Senza alcun coinvolgimento Non sopporterei questo rimprovero per me È facile, lo giuro Combatto inutilmente l suo tocco sento ancora Sarebbe stato bello Stare un giorno insieme a lui Quel suo raro ricordo Che continua a tormentarmi È tutto ciò che voglio e lo sto gettando via Esistere è facile, o no? |
La traduzione, con alcune ingenuità dovute all’inesperienza, sacrificava il concetto del titolo (“è facile come la vita”) ma non comprometteva il messaggio. Da quel momento, salvo alcune eccezioni, ho sempre voluto curare musical in italiano. Ciò vuol dire affrontare alcune ulteriori difficoltà che qui cercherò di analizzare.
Molti problemi li conosciamo bene: la sinteticità della lingua inglese, la presenza di numerose parole monosillabiche, che comporta la resa con un numero eccessivo di parole tronche (o peggio ancora troncate) a dir poco fastidiose in italiano. A volte questo ha come conseguenza lo spostamento degli accenti, il cui esempio più noto è “l’affittò” di Rent:
Altre volte il risultato è il ricorso a un lessico inusitato o anomalo. In Herod’s Song la frase “Change my water into wine” è diventata “Cambia l’acqua in malvasia”, il che fa di Erode un esperto di vinicultura… Non sarebbe stato meglio “Cambia in vino l’acqua mia”? Si tratta di due opzioni divergenti: una scanzonata, in linea con l’atmosfera da vaudeville del pezzo, l’altra più corretta e “filologica”, ma banale.
Sicuramente bisogna trovare un quid medium tra musicalità e letteralità. Questo influenza la scelta di mantenere o no rime, sempre abbondanti in inglese, ma che a volte in italiano danno un gusto un po’ retro. Un altro elemento di cui tenere conto sono le vocali dell’originale, che spesso sono legate alla cantabilità, e il cui cambio può rendere un passaggio più arduo per il cantante.
Possono esserci eccezioni alla regola? Forse un caso particolare è quello del jukebox musical, dove le canzoni sono molto conosciute al pubblico. Già per il caso di Mamma mia, le cui canzoni sono molto integrate nella storia, si sente la necessità di farne comprendere il significato. We Will Rock You è forse l’unico davvero intraducibile, anche tenendo conto che molte canzoni sono quasi solo la scusa per una performance. Siamo sicuri di volere o potere trasformare la potente title track in “Noi ti culleremo” o “Noi ti scuoteremo”? Però è stravagante anche la scelta ibrida di tradurne alcune e lasciarne altre in originale, adottata dalla produzione italiana di qualche anno fa:
A volte il rischio è semplicemente quello di banalizzare: così in Rent la geniale idea “numerica” che sta alla base di Seasons of love è andata perduta nella versione italiana, con due frasi che hanno sostanzialmente significato identico:
525,600 minutes 525,000 moments so dear 525,600 minutes How do you measure, measure a year? |
Non è in minuti, secondi, in ore o momenti Che tu potrai misurare un anno così In ore, giorni, minuti il tempo non conta Come misuri tanta nostalgia |
L’adattamento spagnolo ha preferito sacrificare l’esattezza metrica in favore del concetto:
Discutibili soluzioni in fatto di musicalità e intellegibilità si trovano nel recente adattamento di Evita. Prendiamo ad esempio Don’t cry for me Argentina:
I had to let it happen, I had to change Couldn’t stay all my life down at hills Looking out of the window Staying out of the sun So I chose freedom Running around, trying everything new But nothing impressed me at all I never expected it too Don’t cry for me Argentina The truth is I never left you All though my wild days, my mad existence I kept my promise, don’t keep your distance |
Non ebbi altra scelta, non una in più Sarei morta di noia a Junin Sguardo in su verso il cielo Sognando Baires Ho vinto io Giocando ogni Hatu senza cedere mai Nella sfida più grande per me Adesso non chiedo di più Da ora in poi Argentina Quel pianto ti sia lieve Io non ti lascio, non chiedo altro Ti stringo forte in un abbraccio |
Colpisce la frase “Da ora in poi Argentina” in quanto lo iato tra vocali non rende scorrevole la frase, né viene rispettato il senso originale del “non piangere”. Poco efficaci inoltre alcuni termini come Baires – abbreviazione poco usata in italiano e soprattutto con l’accento spostato in fondo – o Hatu che ricorda ai più una nota marca di profilattici e non le carte da gioco (il termine peraltro andrebbe scritto atout).
Se invece consideriamo la versione pop resa celebre da Milva:
Volevo far qualcosa, e ci provai
Da una vita seduta mi alzai
Spalancai le finestre e le ombre gettai
Chiesi libertà
Cercando un po’ di aria nuova anch’io
La vita diceva di no, non regala niente lo so
Non piangere più Argentina, davvero mai ti lascai
Che vita pazza
Ma io mantenni una promessa
Partii me stessa
Qui risulta particolarmente pesante la serie di passati remoti; inoltre l’idea di “aria nuova” associata all’immagine dello spalancare le finestre finisce per essere involontariamente ridicola.
Spesso il problema non sta nella metrica, ma nei riferimenti culturali.
Le difficoltà cominciano coi nomi propri. In Heaven on their minds, da Jesus Christ Superstar, come fare con l’urlo di Giuda: “Jesus!”? La versione Rancia (Follia e realtà) ha lasciato l’originale, nell’impossibilità di tradurlo efficacemente, sebbene esso suoni un po’ anacronistico e irrealistico (non lo è invece nella title song): ma del resto era un’intenzione dichiarata del regista Fabrizio Angelini (e rispecchiata dall’allestimento) quella di staccare il personaggio dall’immaginario cattolico e renderlo più enigmatico e moderno. Invece la traduzione “Cristo!!”, nella versione italiana proposta da Massimo Piparo nel 1999 (Accecati di utopia), suona invece quasi come una blasfema imprecazione.
In Sister Act, quando la Madre Superiora paragona Deloris a un carro del carnevale di Viareggio, il riferimento appare fuori luogo, visto che l’azione si svolge a Chicago: ricorda il caso delle commedie plautine, ambientate in città greche ma con continui rimandi alla cultura romana (istituzioni, moneta, divinità, luoghi), con un forte effetto di straniamento. La battuta originale del personaggio è “A neon sign blinking Wawa Food Market is less inpicuous?”, ovvero “Una luce al neon che segnala un Wawa Food Market [una catena di supermercati diffusi presso le stazioni di rifornimento americane] è meno appariscente”. Può una traduzione letterale suscitare il riso? Di questo abbiamo chiesto giustificazione a Franco Travaglio nella intervista esclusiva che verrà pubblicata come seconda parte di questo articolo.
Quando il pubblico non è in grado di cogliere l’allusione il valore si perde.
Progettando un allestimento di Tick Tick Boom, mi sono scontrato con la difficoltà di proporre Sunday: non un problema di termini, ma il fatto che in platea pochi avrebbero riconosciuto e apprezzato la ripresa parodica di Sunday in the park with George? Negli spettacoli comici la maggior parte dei riferimenti sono riportati alla realtà italiana: questo giustifica, ad esempio in Nunsense, i rimandi a personaggi come Raffaella Carrà o Gigi Proietti, fin dal sottotitolo “Le amiche di Maria” che ovviamente allude al noto programma di Maria de Filippi:
Un caso tutto particolare è quello della versione cinematografica di The Phantom of the Opera. Come è noto, normalmente nei film – con la consistente eccezione dei musical a cartoni animati – si opta per non tradurre le canzoni, anche se l’oscillazione tra l’inglese e l’italiano dei dialoghi ha un che di artificioso ed è spesso oggetto di critiche da parte dei detrattori del genere. Il Phantom è, tra i film recenti, l’unica eccezione. Lloyd Webber ha imposto il doppiaggio delle canzoni, nella speranza (rivelatasi poi vana) di attirare più spettatori. La necessità di adattarsi al labiale (per di più eseguita su inquadrature “censurate”, dove era visibile solo la bocca degli attori, al fine di evitare la pirateria) ha comportato alcune forzature come “Passa il ponte fra noi due”:
Tradurre è comunque tradire. Non tutto si può salvare, però si deve limitare il danno. Qualcosa senz’altro si perde, molto si guadagna. Soprattutto in un paese dove ancora si mastica troppo poco l’inglese. Servono però cultura letteraria, conoscenze di metrica non scolastiche, ricchezza di vocabolario, esperienza musicale e canora. Insomma, non ci si improvvisa traduttori.