MY FAVOURITE THINGS
di Ilaria Faraoni
Titolo originale: Funny Girl
Anno: 1968
Casa di produzione: Columbia Pictures Corporation e Rastar Production – produttore: Ray Stark – tratto dall’omonimo spettacolo con le musiche di Jule Styne, le liriche di Bob Merrill ed il libretto di Isobel Lennart – Musiche: Jule Styne – Liriche: Bob Merrill – Sceneggiatura: Isobel Lennart – Vocal-Dance Arrangements: Betty Walberg – Direzione numeri musicali: Herbert Ross – Orchestrazioni: Jack Hayes, Walter Scharf, Leo Shuken, Herbert Spencer – Musiche supervisionate e dirette da Walter Scharf – Production Designer: Gene Callahan – Costumi di Barbra Streisand: Irene Sharaff – Direttore della fotografia: Harry Stradling A.S.C. – Regia: William Wyler.
Con: Barbra Streisand, Omar Sharif, Kay Medford, Anne Francis, Walter Pidgeon.
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TRAMA:
La storia racconta, in forma più o meno romanzata, la vita e la carriera di Fanny Brice (Barbra Streisand), artista americana realmente vissuta tra il 1891 ed 1951. Il film si apre con una lunga inquadratura della protagonista, ripresa di spalle; la macchina da presa la segue mentre entra in un grande teatro, il New Amsterdam Theatre. Sulla facciata dell’edificio campeggia il suo nome: Fanny Brice. Sedutasi nella platea vuota (che già prepara al tema della solitudine, così importante in tutta la storia), Fanny ripercorre la sua vita in un flashback che dura per la quasi totalità del film: dall’esordio in un piccolo locale, all’incontro con quello che diventerà il suo primo marito, il giocatore d’azzardo Nick Arnstein (Omar Sharif); dal debutto voluto dal famoso Ziegfeld (Walter Pidgeon) nelle “Ziegfeld Follies”, al grande successo (artistico e, sulle prime, familiare) fino al successivo fallimento del suo matrimonio.
Solo nel finale della pellicola, quando la narrazione ritorna al presente, si scoprirà che quello è un giorno decisivo per Fanny: il marito Nick, in carcere per truffa, ha scontato la sua pena e probabilmente si farà vivo. Fanny è disposta a rinunciare a tutto pur di non lasciar naufragare il matrimonio, ma…
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CURIOSITÀ:
- Tre canzoni hanno origini diverse e non furono scritte appositamente per “Funny Girl”:
“My Man” (musica di Maurice Yvain – Liriche francesi di A. Willemetz & Jaques Charles adattate in inglese da Channing Pollack. La versione inglese fu incisa nel 1921 dalla vera Fanny Brice)
“Second Hand Rose” (di James F. Hanley & Grant Clarke e fu cantata da Fanny Brice nelle “Ziegfeld Follies” del 1921 )
“I’d Rather Be Blue” (di Fred Fisher e Billy Rose. Quest’ultimo, impresario e compositore, fu il secondo marito di Fanny Brice. Di Billy Rose sono quasi tutte le canzoni di “Funny Lady” (1975) il seguito di “Funny Girl”, diretto da Herbert Ross, che in “Funny Girl” aveva diretto i numeri musicali. Nel link l’incisione originale di Fanny Brice) - Il produttore, Ray Stark, era il genero di Fanny Brice, perciò volle fortemente girare anche il seguito, “Funny Lady”, che raccontava la seconda parte della vita di sua suocera. Il film, previsto fin dai tempi di “Funny Girl”, non riuscì tuttavia a raggiungere lo stesso apprezzamento della prima opera.
- Come location per le scene ambientate alla stazione, compresa la canzone “Don’t Rain On My Parade”, venne utilizzata la stazione centrale di Hoboken, costruita nel 1890 e all’epoca del film in disuso. Charlie Peterson, figlio del primo macchinista della stazione, poi macchinista egli stesso e successivamente custode, fu inserito come comparsa in una scena. Era un ammiratore, insieme alla moglie, della Fanny Brice originale.
- Nel web si trovano diversi video di Fanny Brice. Eccone alcuni: Fanny Brice and the Follies girls 1934; Judy Garland & Fanny Brice – Why – Because!; Fanny Brice – Quainty Dainty Me (from Everybody Sing)
[divider]N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.

Silvia, perché hai scelto “Funny Girl”?
È un film che ho iniziato a vedere da piccolissima, perché guardavo tutti i vecchi film con mia nonna, anche se “Funny Girl”, che è del 1968, era forse il più recente. Danny Kaye, per esempio, quando ero ragazzina è stato il mio mito, perché mia nonna guardava tutti i suoi film. Quando c’era lui era proprio un: “Fermi tutti! C’è Danny Kaye!”. Quando siamo andati a New York con “Pinocchio” ed eravamo alla “Sylvia & Danny Kaye Play House”, avrei tanto voluto poter dire a mia nonna: “Guarda, sono in un posto che si chiama Danny Kaye!”. Sarebbe impazzita! Segnalo tra l’altro un film che si chiama “L’uomo meraviglia”, che non è proprio un musical, con Danny Kaye e Vera Ellen. Adoravo Vera Ellen, così come adoravo anche Cyd Charisse e Ann Miller.
Tornando a “Funny Girl”, ogni volta che c’era Barbra mi mettevo lì sulla poltrona a guardarla. Sarà stata la sua comicità, ovviamente la sua voce ed il fatto che io pattinassi e che nel film ci fosse una scena sui pattini che mi faceva tanto ridere: fatto sta che è stato uno di quei film che vedevo con cadenza settimanale.
Oggi ovviamente lo apprezzo ancora di più: le capacità attoriali di Barbra Streisand mi devastano. Si sa, la Streisand ha una voce incredibile, ma addirittura per me è molto più brava a recitare che a cantare. Per “Funny Girl” vinse l’Oscar come miglior attrice, quindi non sono solo io a dire che era stata brava [ride, ndr], anche se lo vinse a metà, perché fu forse l’unico anno in cui lo assegnarono ex aequo anche a Katharine Hepburn. La Streisand non è mai stata molto amata da Hollywood, forse perché era ebrea, forse per altri motivi, per cui non potendo fare a meno di darle l’Oscar, non le lasciarono il posto da sola.
Quanto a “Funny Girl”, mi fa impazzire la formula che unisce comico e drammatico: il film nel primo tempo è comicissimo, nel secondo tempo è devastante, quindi si possono apprezzare entrambi gli aspetti. Poi affrontare le cose tristi della vita con la comicità è una cosa che mi ha insegnato mio padre: avere sempre, anche nei momenti brutti, l’ironia e l’autoironia, che sono quelle che poi ti salvano… quindi anche per questo aspetto è un film che mi ha sempre preso molto. C’è una scena, quando lui se ne va e lei, Fanny, gli fa quel passettino della serie: è tutto uno show, the show must go on… in quel caso è la vita che va avanti e la si prende comunque col sorriso, nonostante la scena finale, poi, sia molto drammatica; parlo della canzone “My Man”. La Streisand la girò tutta in presa diretta fino ad un certo punto, perché piangeva davvero… Verso la fine piangeva talmente tanto che non riuscì a fare il finale, infatti nello stacco si vede che anche il viso è diverso, non ha più quelle lacrime vere: lì mi devasto, proprio. Quanto rido all’inizio, ancora oggi, nonostante sappia le battute a memoria, tanto piango su quella scena, che mi prende allo stomaco. La canzone all’inizio neanche la canta, quasi la recita, perché sta piangendo; addirittura ad un certo punto prende una nota stonata ma va bene, come dico sempre l’interpretazione batte la tecnica 100 a 1! Lei poi le ha tutte e due!
Questa è tutta la serie di fattori che rende sicuramente “Funny Girl” il numero uno della mia lista musical.
Barbra Streisand: primo film, “Funny Girl”, e subito l’Oscar…
Ah… dea delle dee! Poi attenzione: recitare in quel modo nel primo film, anche se aveva già interpretato la parte a teatro e quindi era avvantaggiata [ride, ndr]… chi sei? Sei un dio!
Anche perché mi chiedo sempre come si faccia a immedesimarsi recitando in un film o in una fiction, dove si gira una scena e poi si passa ad altro: non è come recitare in teatro…
È quello che mi sono sempre chiesta anch’io, anche perché non ho mai fatto provini o ruoli per il cinema, tranne qualche comparsata con la Premiata Ditta per “Finché c’è ditta c’è speranza”.
Con gli stage che fai, dai molta importanza all’interpretazione, uno di questi si chiama proprio: “L’attore nella voce”. Quindi analizziamo l’interpretazione della Streisand.
Sì, in tutti gli stage che faccio, anche in quello di “Sindrome da Musical” con Manuel [Frattini, ndr], lavoro sempre sull’interpretazione, che è la carta vincente e che poi naturalmente deve essere supportata da una tecnica, da uno studio di base.
Riguardo alla Streisand: ma che voi analizza’? È perfetta! [ride, ndr]. Infatti dico sempre – come mia mamma – che la tecnica perfetta non esiste, tranne nel suo caso. Veramente, mi trovo in difficoltà a commentare la Streisand.
Guardi un film e ridi, poi guardi “Pazza” – che non è un musical – ed è totalmente drammatico… Sa fare tutto e poi è di una naturalezza devastante, come Meryl Streep. Lei è esattamente la persona che sta interpretando in quel film, non è Meryl Streep che fa… Periodicamente faccio delle maratone guardando film: a Ferragosto, a Natale, a Capodanno… Avendo tutti i film della Streep ho fatto una di queste maratone poco tempo fa. Ho visto di seguito “The Iron Lady” dove fa la Thatcher, poi un altro film dove interpreta una donna abbattuta che vuole cambiare il suo matrimonio, e poi “Il dubbio”. Non è mai Meryl Streep… e la stessa cosa avviene con la Streisand. La trovo proprio naturale. Anche quando canta, non canta in realtà: parla, fa un discorso. Lo spettatore non pensa: “Ah, ora c’è la canzone”… lei sta semplicemente continuando a parlare.
Non c’è quello stacco che ti fa uscire dalla storia…
Esatto, ed è un po’ quello che cerco sempre di evitare o che noto quando vado a vedere un musical. Mi dà fastidio quando, nel momento della canzone, il personaggio cambia addirittura la voce; si gira, c’è lo spot… una specie di “momento Sanremo”. Faccio l’esempio di “Figli” nel musical “Pinocchio”: quando Angela dice a Geppetto “Parli come un padre” e lui risponde “Parlo come il mio” e subito attacca con “Sembra solo ieri quando mi inseguivi… ”, è tutto un discorso unico. Geppetto non “inizia” a cantare. Non è: “Parlo come il mio” – mi giro – pubblico – canzone – “Sembra solo ieri… ”. No! È di seguito. È quella la canzone nel musical. La commedia musicale all’italiana, come quella di Garinei e Giovannini, è diversa. Quando c’è la canzone, c’è la canzone, che è contestualizzata, ma solitamente non è il proseguimento di un discorso. È più qualcosa come: “C’è un momento importante e voglio cantare questa bella canzone che lo riguarda”. Lì ha un senso perché è tutto impostato in quel modo. Nel musical theatre, invece, le liriche sono scritte per essere il proseguimento del discorso precedente, a meno che non ci sia proprio un numero: se c’è il numero, come in “Cabaret” possono essere “Don’t tell Mama” o “Mein Herr” che sono i numeri dello spettacolo all’interno del locale, è un altro discorso. Quando parte “Maybe This Time”, quella non è la canzone, è un suo pensiero. Sicuramente, in “Funny Girl”, “I’m The Greatest Star” è l’esempio più eclatante, perché la Streisand parla e canta contemporaneamente: è una canzone che ho scelto poi per “Sindrome da Musical”, perché trovo che sia il massimo della recitazione e del canto insieme: è tutto un discorso, in realtà lei non canta mai.
Parliamo delle canzoni e dell’autore delle musiche: Jule Styne
Le canzoni sono una più bella dell’altra, secondo me: sono tutte dei capolavori. Magari la gente non conosce il film “Funny Girl”, però tutti conoscono “Don’t Rain On My Parade” e “People”. “I’m The Greatest Star” l’abbiamo portata al successo con Sindrome [ride, ndr]. “My man”, che non è di Styne, adesso la conoscono anche i ragazzini perché l’ha cantata Lea Michele (Rachel Berry) in “Glee”: hanno voluto rifarla identica, compresi gli sguardi e le lacrime di Barbra, tant’è che quando l’ho vista ho gridato allo scandalo. Non puoi rifare una canzone imitando… e poi una canzone del genere! Anche se sei brava, se imiti qualcun altro sei comunque la brutta copia di una cosa che già esiste, quindi perché?
Tra l’altro Styne è l’autore di molti altri musical famosissimi come “Gentlemen Prefer Blondes”, “Gypsy” e “Sugar” per citarne solo alcuni… E forse non tutti sanno che anche una canzone come “Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow!” incisa dai più grandi cantanti dagli anni ’40 ad oggi è sua. Cosa lo caratterizza musicalmente, secondo te?
Faccio molti pezzi da “Gli uomini preferiscono le bionde”, infatti se non avessi scelto “Funny Girl” avrei scelto quello. Cosa caratterizza Styne? Sai, gli autori che scrivono musical o colonne sonore per il cinema sono eclettici, non sempre hanno una firma. A meno che non si parli di Andrew Loyd Webber, che potrei riconoscere anche ascoltando un pezzo senza sapere che sia suo. Forse questo vale un pochino anche per Stephen Sondheim. Ma la forza di autori come Styne è che si adattano a quella particolare storia, a quel contesto, a quelle voci, a quell’epoca. Poi magari un altro film o un altro spettacolo parlano di altro e quindi le musiche cambiano totalmente. È un po’ come per l’attore. L’attore è neutro e si adatta a quello che gli viene proposto, anche vocalmente. La stessa attrice potrebbe fare sia “Rent” che “Il Fantasma dell’Opera” e credo che funzioni allo stesso modo per i musicisti. Non sono una musicista, quindi tecnicamente non posso entrare in questo aspetto, ma è un qualcosa che avverto. Poi sicuramente analizzando le canzoni hanno tutte una firma, ma è bello vedere come questi autori adattino la propria musica e la propria personalità. Non devi per forza infilare una cosa tua, perché è tua, in una storia in cui non c’entra niente. È appunto lo stesso lavoro che fa l’attore e questa è la differenza tra chi fa teatro, adattandosi alla storia e a tutto il contesto – sia vocalmente, che fisicamente – e chi invece fa il cantante e deve avere la propria firma. Il cantante pop, rock, di musica leggera, deve avere quella voce, non deve mai cambiare e adattarsi, sono gli altri che si adattano a lui. Noi che facciamo musical, non siamo cantanti: siamo attori. E l’attore è neutro, si veste del personaggio anche vocalmente. Ecco forse perché quelli che hanno studiato per fare musical, quando poi partecipano ai talent, improvvisamente non colpiscono: primo perché sono puliti, e già questa è una bella differenza. Più sei graffiato, sporco, coi noduli, più fai successo perché hai quel timbro particolare. Ma proviamo a pensare ad un attore che fa 300 repliche: se dovesse cantare in quel modo tutte le sere arriverebbe alla terza replica e poi entrerebbero i cover.
A maggior ragione quindi il discorso vale per la musica, che è quella che ti racconta la storia. Quando faccio analizzare una canzone ai miei allievi, la analizzano solo dal punto di vista del testo e del personaggio. Allora chiedo: “Ma la musica l’hai sentita? Hai ascoltato la base, sei stato attento a cosa fanno gli strumenti?”. La canzone di cosa è fatta? Di musica e di parole, quindi vanno analizzate entrambe. Il compositore che ha scritto quella musica sta raccontando qualcosa: se la si ascolta bene, la base musicale ti sta già dicendo come interpretare la canzone; ci sono dei movimenti, gli archi, gli stop… perché lì l’autore ha usato solo il pianoforte? Vuol dire che è un momento più intimo, quindi non si deve urlare, in quel punto.
Deve essere veramente affascinante seguire un compositore che legge una storia e ne immagina le musiche: vedere come si muova per raccontare quella determinata cosa, quel passaggio. Ho visto ultimamente “Saving Mr. Banks”, dove sono rappresentati anche i due compositori delle musiche di “Mary Poppins”. È un aspetto che è passato in secondo piano nel film, invece mi ha affascinato vedere come si mettessero lì a creare.
Purtroppo l’attore arriva sempre a cose già fatte; magari se si tratta di un musical originale si aggiustano le tonalità e alcune cose. Si può proporre: “E se qui io facessi così?”.
Ho avuto la fortuna di intravedere qualcosina quando è stato allestito “Pinocchio”. Un gruppo musicale pop italiano come quello dei Pooh, che aveva delle sue regole e 40 anni di esperienza e professionalità, si è dovuto confrontare con un’altra realtà. Da un lato c’era un musicista come Facchinetti, per esempio, che è un entusiasta e che ti spiegava perché aveva scritto quella cosa, quel passaggio, quel rialzo di tono; dall’altra c’era Giovanni Maria Lori con altre esigenze: nel musical una canzone non può durare 4 minuti e mezzo con strofa, inciso, strofa, bridge, inciso e chiusura; non si può ripetere la stessa cosa nel secondo inciso perché il brano musicale è un racconto e la storia deve andare avanti. Oppure la parte strumentale va tolta se non c’è un cambio di scenografia o un balletto… O si deve allungare il finale perché devono girare le scenografie… Sarebbe bellissimo assistere a questa fase creativa!
Ci sono scene o canzoni di “Funny Girl” che vuoi analizzare in modo particolare?
“Don’t Rain On My Parade”. Amo moltissimo quando un primo atto si chiude con una canzone singola, perché vuol dire che è talmente d’impatto da essere in grado di sostenere un “fine primo atto”. Alcuni esempi: “And I Am Telling You I’m Not Going” in “Dreamgirls”, “Alive” in Jekyll & Hyde, “Se Non So Amarla” ne “La Bella e la Bestia”. Di solito invece il compito viene lasciato ad un numero.
Tornando a “Don’t Rain On My Parade”… cos’è questa canzone?! È tutta una corsa di Fanny per riuscire a raggiungere Nick. Quando ci sono canzoni del genere sono talmente in tensione ed in agitazione per quello che mi comunicano, che alla fine del pezzo devo prendere una pausa. Anche se sono a casa, per me è veramente un “fine primo atto”: fermo il film e mi faccio un caffè, una camomilla, perché sudo durante la canzone! Qui ci sono il treno, poi il taxi, le valigie, lei che corre con quel vestitino a tubino che le impedisce di correre e poi quell’acuto nel mare, sul peschereccio… arrivi alla fine che tiri un sospiro di sollievo e devi riposarti!
È, tra l’altro, una canzone che spesso viene portata ai provini. Per esempio l’ho sentita cantare a Zoe Nochi in una maniera pazzesca: quando ho visto questa ragazzina che portava una canzone del genere ho pensato che non avesse senso e invece ha “spettinato” tutti quanti! Nel Gala del musical a Milano diretto da Andrea Casati la cantò Roberta Valentini, una ragazza che lavora in Germania da sempre e ha fatto anche Elphaba in “Wicked”: standing ovation! Una vera esplosione.
Parliamo di Florenz Ziegfeld e delle “Ziegfeld Follies”, di cui Fanny Brice fu una stella. Nel film c’è anche un numero grandioso con “sorpresa” finale.
Barbra Streisand ha riproposto, in un suo concerto, la scena di “Funny Girl” in cui lei chiama “Mr. Ziegfild, Mr. Ziegfild” e la voce fuori campo risponde: “ZiegfEld” non “I” [è la scena in cui la protagonista, appena scritturata da Ziegfeld, lo chiama dal palco per dirgli che non vuole fare un numero assegnatole, ndr]. Mi fa morire quella scena, perché mi ricorda un po’ il rapporto che ho con Saverio Marconi. L’ho sempre visto come il nostro Ziegfeld. Si può dire che Saverio mi abbia creata, perché mi ha dato il via con “Pinocchio” ed oggi abbiamo un rapporto molto bello, anche se ci trattiamo male. Quindi la scena in cui Fanny dice: “Mr. Ziegfeld, io non lo voglio fare il finale” e tutti rimangono a bocca aperta, mi ricorda un pezzo della mia vita. È come se oggi qualcuno dicesse a Saverio Marconi: “No, io questa cosa non la faccio”. Non che io abbia mai detto a Saverio “Non lo voglio fare” per carità, però ci sono parecchi momenti in cui Saverio ed io ci punzecchiamo; oppure lui mi chiede di non mettere il viola ed io lo metto ugualmente… mi sento un po’ Fanny Brice che mette il cuscino sotto il vestito, insomma [Fanny, costretta da Ziegfeld a cantare comunque dei versi che non sente adatti a se stessa esce, nel gran numero finale dello spettacolo, con un finto pancione sotto un abito da sposa, ndr]. Ziegfeld adora comunque Fanny, perché ha una personalità talmente forte, talmente sua.. Naturalmente supportata dal talento, perché immaginiamo cosa sarebbe successo se una avesse risposto così a Ziegfeld e poi fosse stata una “cagna”…
Approfondiamo questo gran numero alla “Ziegfeld Follies” con il finale “His Love Makes Me Beautiful” dove lei, appunto, “indossa” il pancione.
Mi fa molto sorridere vedere come fosse costruito l’ensemble, come fosse manierato. Poi ad un certo punto arriva lei, che è come un pugno, non c’entra niente… E se non fosse così mi annoierei. Ci sono tanti film dell’epoca con i classici “numeroni” fatti in quel modo: mi annoiano dopo un po’, ovviamente per l’epoca erano giusti. Le altre ragazze sono tutte fichissime, tutte belle, con quegli occhi “cerbiattosi” e poi arriva lei. Così quel numero ha senso, ed è ancora più bello che il resto sia così manierato, perché in questo modo si dà ancora più importanza alla follia del momento di Fanny.
Comunque se penso a quante persone, a quanti costumi, a quali scenografie ci fossero per fare soltanto un numero… qui si tratta di un film, ok, ma in teatro era la normalità. Sipari, scalinate, girevoli con 40 persone in scena, tutto per un numero. Pensiamo a quanti soldi girassero. Adesso sarebbe inconcepibile anche a Broadway, figuriamoci in Italia. Ormai gli unici eventi con tante persone che ci sono rimasti sono i flashmob.
Quanto mi fa ridere, poi, quando all’inizio Fanny riceve un telegramma da Ziegfeld [che la convoca per un provino, ndr] e dice: “È troppo presto, non ho sofferto abbastanza!”. Quella è una frase importantissima ed è esattamente il contrario di quello che succede oggi. Oggi basta andare una volta in televisione per avere tutto. Il concetto di “Non ho sofferto abbastanza” è stato decisamente abbandonato. Questa scena ti fa invece capire come fosse prima la situazione e come dovrebbe essere ancora oggi. La famosa gavetta, non si deve fare perché ce l’ha prescritta il medico, ma perché c’è un motivo. Invece quello che si aspettano oggi i ragazzi, e non solo i ragazzi, è ben diverso.
Se lo aspettano anche perché c’è qualcuno che lo permette…
Sì, ed anche perché il modello che hanno è quello. Non passano film come “Funny Girl” il sabato sera… Riguardo ai talent, è proprio il concetto che per me è sbagliato: si dà una rappresentazione sbagliata di quello che è questo mestiere che, tra parentesi, la gente neanche considera un mestiere, quindi già siamo messi male. Perciò quella frase del film è importantissima. È detta in modo comico, ma ti fa riflettere: non è possibile che arrivi tutto subito. Il pezzo che mi fa più ridere poi, legato a questa scena, è quando lei arriva a casa e trova una piccola folla di gente, vede un telegramma e pensa che sia morto qualcuno. Le fanno il nome di Ziegfeld e lei chiede “È morto?”. Io lì “schiatto”, quella è la mia battuta preferita. Ed i tempi comici della Streisand sono eccezionali!
Tra l’altro, guardando molti film musicali, anche quelli precedenti a “Funny Girl”, si nota quanto Ziegfeld abbia influenzato anche il cinema. Ci sono citazioni dirette o indirette, alcuni film sono totalmente incentrati sulla sua figura, sulle sue star, sui suoi spettacoli…
E poi dicono che gli americani abbiano inventato tutto… Ziegfeld viaggiava, andava a Parigi, prendeva molto dall’Europa e lo portava in America.
C’è un’altra scena molto divertente in cui c’è una parodia de “Il Lago dei Cigni”, con un cammeo di Tommy Rall. Mosse ed espressioni ridicole a parte, ci si accorge che la Streisand deve aver studiato anche danza classica…
Sì, come pure il pattinaggio… In realtà nel “Roller Skate Rag” e in “I’d Rather Be Blue” lei fa finta di non saper pattinare, ma per fare quelle cose devi saper pattinare, altrimenti non arrivi alla fine della scena.
Mi piacerebbe che commentassi alcune frasi chiave del film. Alla fine di “I’m The Greatest Star” il coreografo del teatrino dove si era presentata Fanny per far parte delle chorus girls – “8 Beautiful Girls 8” – si accorge del suo talento e le dice: “Tu non sei una ballerina, sei una cantante e sei comica… ma perché vuoi fare la ballerina?”. E lei risponde: “Perché cercavate una ballerina, se aveste cercato un prestigiatore venivo lo stesso. Io voglio stare sul palcoscenico comunque!”.
Questa te la commento subito perché è un po’ quello che è successo a me. Quando penso al mio itinerario artistico mi viene sempre in mente lei che dice questa frase. Mi sono sempre cimentata anche in cose in cui non ero molto ferrata, a partire dalla danza: anche se non avevo mai ballato, mi dicevo: “No, questa cosa la devo fare, altrimenti non vado avanti!”. Quindi per me è sempre stato un impegno triplo: dovevo imparare quella cosa, quello stile, quella coreografia, nel minor tempo possibile e farla al meglio. Mi sono ricordata proprio di questo film durante i provini per “Cabaret”, quando in realtà cercavano una ballerina che facesse anche un piccolo ruolo. Le ragazze dell’ensemble erano sei ed al provino ci chiesero di toglierci i pantaloni e di ballare in mutande, con i tacchi. La mia fisicità la conoscono tutti: erano tutte ballerine fichissime, “fisicatissime” e c’ero in mezzo io. Me ne stavo andando, ma poi mi son detta: “Ma sai che c’è? Che io voglio stare là sopra, anche se devo fare una cosa che mi mette in imbarazzo, che non so fare!”. Così ho fatto il provino e ci ho messo del mio, come fa lei nel film: ci mette del suo in una cosa che non sa fare e la rende comica, la fa funzionare.
Fui presa ed il primo giorno, guardando le convocazioni sull’ordine del giorno, non vedendo il mio nome chiesi spiegazioni a Fabrizio Angelini che mi rispose: “Tesoro, ma tu sei ensemble!”. Dai ruoli ero arrivata ad essere “corpo di ballo”! Per me fu un obiettivo pazzesco! Poi, ovviamente, c’erano delle cose che non riuscivo a fare tecnicamente, ma ci mettevo altro: la comicità ed anche la mia fisicità. Ho cercato di valorizzare la mia fisicità. A lei nel film dicono: “Tu con le gambe secche… sei licenziata!”. A quell’epoca era un problema avere le gambe secche, ora è un problema avere le gambe grosse…
C’è una cosa fondamentale che Fanny ad un certo punto spiega a Ziegfeld: “Non hanno riso di me, hanno riso con me”. Questo è sfruttare al massimo i propri difetti perché il pubblico ti ami ed il personaggio buffo, grasso (oggi) o secco (all’epoca) è amato: nel momento in cui riesci a conquistare il pubblico con i tuoi difetti non ci sono protagonisti che tengano; anche se tu sei il quinto ruolo, alla fine senti l’applausone… Ecco: è questa l’autoironia che mi è stata insegnata e che in questo film c’è all’ennesima potenza.
Continuiamo con altre frasi importanti. Credo che il tema principale di “Funny girl” sia quello della solitudine, soprattutto la solitudine di chi fa teatro o comunque spettacolo. E questa solitudine è rapportata anche al modo in cui un artista è invece “vissuto” da chi gli è vicino. Prima della famosissima canzone “People”, c’è uno scambio significativo di battute tra Fanny e Nick. “Mi piace sentirmi libero”, le spiega lui. Lei commenta: “Si resta soli a forza di libertà!”. Lui risponde: “Ci si resta anche a forza di lavoro!”. Lei conclude: “Chi lo direbbe mai che abbiamo lo stesso problema?”. Poi parte “People” il cui testo è invece emblematico della voglia e della necessità del contatto umano: “People who need people are the luckiest people in the world… ”.
In effetti secondo me chi fa teatro, chi sta su un palcoscenico, ha bisogno di avere contatti umani, non può fare a meno delle persone. Se si è soli nella vita, a maggior ragione il palcoscenico diventa un bisogno vitale! Non hai nessuno a casa, ma magari hai davanti mille persone che in quel momento stanno con te! Poi se consideri che ad ogni tournée magari ci si fidanza e alla fine della tournée ci si sfidanza… In tour si condivide tutto: la stanza, il ristorante, il lavoro, lo shopping, il tempo libero, quindi è ovvio conoscere le persone più a fondo; condividi una passione… Avere una persona accanto che non faccia questo mestiere e che capisca questo bisogno di libertà e di lavoro – perché alla fine in questo mestiere le due cose coincidono – non è facile! Si resta soli e ti chiedi: è perché non ci sono stata? Può essere colpa del lavoro? Non lo so. Magari una persona che non fa questo mestiere vuole avere una casa, una famiglia, un figlio e tu non ci sei mai. Anche se il tuo partner ti dice di essere disposto ad accettarti, che gli piaci perché fai questo lavoro quanto poi, nell’inconscio, non è così?
Questo vale anche per quanto riguarda le amicizie. Come dice sempre mio padre, lui si è accorto che stava perdendo la vita reale: partiva in tour e tornava magari dopo 8 mesi. Quando si ritrovava al bar con gli amici, loro parlavano di cose di cui lui non sapeva nulla, era tagliato fuori dai discorsi, arrivava sempre in ritardo.
Alla fine, nei momenti di pausa, ti ritrovi sempre a chiacchierare con quelli che fanno il tuo mestiere e ti rendi conto che non hai più niente da condividere con quelli che vanno avanti per la vita. È come se staccassi, se entrassi in “Jumanji” e poi tornassi e dicessi: “Che è successo?”. Quando ero piccola, mia madre mancò alla mia Cresima e ancora oggi mi chiede se mi sia mancata, perché per lei fu devastante non esserci!
Nick ad un certo punto dice a Fanny: “Ma sì che mi sono compromesso: con una donna che ha il suo lavoro e che ha troppo da fare per sentirsi sola”. In realtà non è vero che non ci si senta soli, anzi…
Anzi…
E ancora la madre di Fanny, a proposito dei problemi finanziari di Nick, le dice: “Lo sanno tutti Fanny, solo tu non lo sai. È possibile che il teatro non ti faccia vedere niente di quello che ti circonda?”.
Assolutamente.. anche a me succede di tornare da tre settimane di tournée e improvvisamente apprendere, per esempio, che è cambiato il governo ed io non me ne sono accorta. Quando sei fuori pensi ad altro, vivi in un mondo parallelo e non solo rispetto alla tua famiglia, alle tue amicizie o al tuo fidanzato: rispetto a tutto. Ci si alza, si fa un giro per il paese dove si deve fare lo spettacolo e poi si va in teatro. Che ne sai di quello che succede fuori dal teatro? Certamente oggi è più semplice, basta aprire facebook connettendosi col telefono e si apprendono le notizie, anche se non sai mai se siano delle bufale o no. Nelle famiglie classiche si cena, si guarda il Tg, si guarda “Striscia la notizia”. No, io all’ora di cena sono in teatro a truccarmi. Forse anche questo non ti fa rendere conto delle situazioni che ci sono a casa. Quando magari hai un fidanzato o una fidanzata che ha problemi sul lavoro e tu torni dopo una settimana o dieci giorni e starai a casa solo un giorno o due, forse la persona che hai accanto non ha voglia di raccontarti i problemi della settimana, perché quel poco tempo preferisce passarlo nel letto a guardare un film insieme, oppure uscendo a chiacchierare. Non gli va magari di affossarti con i suoi problemi e quindi tu non parli della sua vita, che però è anche la tua vita! E le cose vanno avanti così finché un giorno si torna a casa e ci si rende conto di essere diventati due estranei. Finché si sta vivendo tutto questo non ci si pensa e poi ci si ritrova veramente a “cascare dal pero”.
C’è una canzone “Sadie, Sadie”, che prende il nome dalla figlia bruttina della vicina di casa di Fanny. Sadie rispecchia il modello di felicità cui aspira Fanny: una “normale” ragazza, felicemente sposata…
Vorrei proprio conoscere una mia collega che non desideri la famiglia. È vero, ci piace andare in tournée, vedere posti nuovi, ma non perché non si voglia una vita normale, anzi: è che è impossibile avere tutte e due. Uno ci prova, il sogno è quello, è il “Sogno Disney”, quello del “E vissero felici e contenti”. Bisogna essere bravi a conciliare le cose. Da piccola ho passato tanti anni in tournée con mia madre o con mio padre, nei mesi estivi o durante le vacanze di Natale: significava non vedere gli amici, non andare al Grest, non fare gli Scout. Fai altre esperienze, sicuramente bellissime, però bisogna scegliere quale delle due fare, farle entrambe è complicato. Ammirazione ed un grande applauso per chi ci riesce.
La canzone del titolo, “Funny Girl”, dice “And though I may be all wrong for a guy, I’m good for a laugh, I guess it’s not funny, Life is far from sunny, When the laugh is over And the joke’s on you… ”
È di una tristezza infinita! Alla fine la gente ti vede solo perché sei divertente, sei buffa.. eh, grazie.. ciao… È come quando dici ad uno brutto: “Sai che sei molto simpatico?”. È brutto perché passi una vita a dire che l’ironia e l’autoironia ti aiutano a vivere meglio, ti fanno affrontare bene anche le situazioni tristi e poi quando queste arrivano, e l’ironia è l’unica cosa che ti rimane, è una magra consolazione.
Che ne pensi del seguito, “Funny Lady”?
Ce l’ho a casa e mi sono sempre rifiutata di vederlo. Ho il terrore di vedere i seguiti. Quello di un film come “Funny Girl”, poi, che ha un finale perfetto… Forse però dopo questa intervista troverò il coraggio…
Omar Sharif.
Omar Sharif è un bell’uomo, aveva un fascino pazzesco… Dire che canti bene forse è un po’ troppo: quando canta insieme a lei “You Are Woman, I Am Man” non è che abbia una voce così accattivante… però ci sta, ha proprio il classico charme dell’epoca e quel sorriso a 36 denti…
Per convincere i lettori a vedere questo film cosa diresti?
Una cosa che vale sia per gli spettatori in generale, sia per chi fa questo mestiere: indipendentemente dalla storia, dalle belle canzoni, dai bei costumi, se si vuole capire esattamente come deve essere fatto un musical, come deve essere interpretato, la qualità che serve ed il percorso che deve fare un attore per raccontare una storia musicale, se si vuole apprezzare la bravura, questo è sicuramente il film giusto! È istruttivo. Una parte del pubblico di oggi non sa bene distinguere uno spettacolo bello da uno mediocre. Allora guardiamo “Funny Girl” e poi andiamo a teatro!

Il pubblico dell’Opera sa esattamente cosa va a vedere, sa cosa devono cantare e come lo devono cantare. Non sappiamo bene, invece, come valutare qualitativamente un musical e la cosa che mi dispiace molto è che tanti pensino di poter fare musical solo perché: “Vengo dalla canzone, so cantare, quindi posso fare musical”. Oppure: “So ballare, posso fare musical”. No! È questa la differenza tra il musical italiano e quello straniero. Non abbiamo questa cultura? Creiamocela! Cominciamo a vedere delle cose fatte in un determinato modo, cominciamo a capire cosa andiamo a vedere. Vuoi fare musical? Devi studiare prima di tutto recitazione, perché sei un attore, un attore che canta, un attore che balla, ma sempre un attore che sta raccontando una storia.
Una volta un’attrice disse in un’intervista che voleva prendersi una pausa dal cinema e dalle fiction e fare un po’ di teatro. Pensava a qualcosa di musicale e non alla prosa, perché non si sentiva in grado di fare prosa. E allora sarebbe stata in grado di fare musical?! Questo è il concetto che passa: che chi non eccelle ma sa fare un po’ di tutto può fare musical, quando invece si dovrebbe considerare che la prosa è più semplice, perché fai una cosa sola; nel musical devi saper fare quello che fai nella prosa ed in più saper cantare, ed in più saper ballare. Quindi vogliamo farci una cultura su come si fa? Intanto cominciamo a guardare “Funny Girl”.
Strano che nessuno abbia ancora portato “Funny Girl” nei teatri italiani…
Io attendo con ansia, tra un po’ divento la nonna di “Funny Girl”, quindi un appello ai produttori: sono disposta a dimagrire moltissimo! [Ride, ndr].
Sito web ufficiale di Silvia Di Stefano: www.silviadistefano.it
Splendido articolo, grazie di cuore. Sicuramente vedrò “Funny Girl”