Passion: primi passi alla scoperta di Sondheim
di Sandro Avanzo
Finalmente! Finalmente il mondo musicale italiano “colto” mostra di riconoscere il genio di Stephen Sondheim e lo inserisce ufficialmente come autore nell’olimpo del grande repertorio della musica classica del Novecento.
Non ancora sul palco del Teatro d’Opera, che pure negli ultimi anni ha aperto i propri cartelloni al musical ospitando più che altro lavori di Bernstein, Gershwin o Porter; ma è il Cantiere Internazionale d’Arte, il festival musicale estivo di Montepulciano, ad aprire per primo la strada italiana a Sondheim facendosi carico di saldare il debito con l’autore americano e impegnandosi a produrre un suo lavoro: Passion in due repliche nelle date del 12 e 13 luglio.
Le ragioni di una la scelta caduta proprio su questo titolo possono esser state molte, per prima l’impostazione vocale richiesta agli interpreti contigua ma non identica a quella del canto lirico, ma di certo è stata determinante anche la particolare struttura di quest’opera che finisce per essere molto affine al modello dello Singspiel classico, punto di convergenza momentaneo ma significativo, differente approdo nella sua costante ricerca di nuovi modelli espressivi per l’autore americano impegnato a reinventarsi ad ogni nuovo lavoro.
Il racconto è infatti tutto organizzato attraverso lo scambio di lettere tra i protagonisti della vicenda, dove nel testo recitato si innesta l’intervento della partitura a sottolineare, sostenere o ad arricchire di significati ciò che la semplice parola non è in grado di esprimere, dopodiché si torna agli interpreti che si esprimono in prosa senza mai stridenti salti di intenzioni.
Tutto è concepito in un unicum, in un fluido passaggio tra musica e parole assolutamente equivalenti per valore. I brani e i dialoghi sono intimamente connessi e conseguenti l’uno all’altro senza sostanziali differenze tra prosa e canto. Tant’è che nel programma di sala originale della prima edizione di Broadway del 1994 non era presente l’elenco dei titoli dei brani (quasi un’eccezione tra le pubblicazioni editoriali di NY!). I sacri testi di storia del musical riportano che non fu neppure possibile estrarre un titolo singolo autenticamente portante a fare da traino commerciale allo spettacolo e forse fu anche questa una delle ragioni dello scarso successo sia a Broadway (280 repliche) che a Londra (232 repliche).
A fronte del mezzo flop di pubblico, il musical si aggiudicò però 10 nomination ai Tony (ne vinse 4 tra cui quello per il miglior musical) più altre 4 nomination agli Olivier (Maria Friedman vinse come miglior protagonista).
Troppo originali o raffinati che fossero la nuova partitura di Sondheim e/o il libretto di James Lapine, di certo il soggetto risultava oggettivamente lontano dalla cultura e dagli interessi degli spettatori inglesi e ancor di più da quelli degli statunitensi. Era una storia che proveniva dal cinema d’autore e dalla letteratura ottocentesca italiani, dal film Passione d’amore di Ettore Scola e dal romanzo Fosca dello scapestrato Iginio Tarchetti, entrambi ambientati del neonato Regno Italico del 1863.
Giorgio è un aitante capitano dell’esercito che si è coperto di gloria in imprese militari e che si trova coinvolto, amante riamato, in una relazione extraconiugale con la bellissima Clara. Ordini superiori lo costringono a lasciare la città per uno sperduto avamposto di montagna e la coppia si deve separare. Qui, nella casa del Colonnello Ricci conosce la di lui cugina Fosca, donna consumata e torturata da varie malattie fisiche e psichiche, ma soprattutto di una bruttezza oltre ogni immaginazione. Sono le letture di romanzi classici che avvicinano Giorgio e Fosca. Lui ne ha pietà e ne ammira la lucidità di pensiero, lei si innamora perdutamente consapevole dell’impossibile sogno. La complessa e travagliata relazione è favorita e sostenuta a scopo terapeutico dal titubante dottor Tambourri, medico della guarnigione. Tra lettere di incondizionato amore e brevi licenze godute in città prosegue la vicenda amorosa tra Giorgio e Clara che è perfettamente informata della presenza di Fosca, e delle forme malsane dei suoi sentimenti, fino a quando il bel capitano non si rende conto che la situazione non può aver seguito in quelle stesse modalità e chiede a Clara di lasciare il tetto coniugale per fuggire insieme. La donna però ha un figlio ed è legata al marito da vincoli di riconoscenza che le impediscono di lasciare per il momento la sua vita attuale, ma se Giorgio saprà attendere ancora molti anni, nel tempo a venire lei potrà coronare il loro progetto di vita insieme. La lettera con queste notizie arriva durante le feste di Natale e viene recapitata insieme a una seconda lettera, del comando militare, che impone un altro trasferimento a Giorgio. Così si scatena la tragedia. Fosca manda a rotoli la propria reputazione e rivela in pubblico la sua ossessione morbosa per Giorgio, il Colonnello Ricci scopre una lettera autografa scritta da Giorgio a sé stesso sotto dettatura di Fosca e, sentendosi tradito, lancia una sfida a duello contro il capitano per il mattino successivo. Il dottore, che tutto sa e di cui è in gran parte responsabile, si mette a disposizione per spiegare a Ricci la situazione, ma Giorgio glielo vieta quando si scopre turbato non per il distacco da Clara o per il duello che lo attende di lì a poche ore, ma per la forza d’animo dimostrata da Fosca nell’annullare sé stessa in pubblico spinta da una forza che può derivare solo dall’amore più assoluto, e a tanto amore lui può rispondere solo con altrettanto amore. Chiede dunque al medico di combinargli un incontro con Fosca per la notte stessa, intrigo già in precedenza messo in atto, e va da lei perdutamente e totalmente innamorato. Per loro sarà una notte unica di totale ed estrema passione, entrambi sanno che sarà letale per la salute fisica di lei. Il duello all’alba si conclude con il ferimento non grave del Colonnello Ricci e con il bel capitano a terra che si contorce tormentato dalle stesse convulsioni che torturavano Fosca. Giorgio si trova ancora nel letto di un ospedale quando, tre mesi dopo, riceve dal Dottor Tambourri un’ultima lettera da cui apprende che Fosca è morta serenamente a pochi giorni dalla sua partenza e allegata alla missiva del dottore trova anche l’ultima lettera scritta da lei. Mentre ne legge palpitando ogni singola parola è raggiunto sulla scena da tutti personaggi, Fosca per prima.
Il dvd ufficiale dell’edizione di Broadway ha insegnato quanto sia difficile portare in scena Passion. A partire dalle scelte del casting per trovare gli interpreti adeguati a quel particolare tipo di vocalità, ma anche dotati di una fisicità aderente ai personaggi, aspetto fondamentale per lo svolgersi della vicenda. A New York era stata la pellicola di Scola a far da guida narrativa, con intere sequenze riprese identiche nel libretto di Lapine dalla sceneggiatura originale, ma aveva funzionato anche da riferimento visivo per il tipo di arredi e per il trucco e la fisionomia dei personaggi.
Più che comprensibile, dunque, l’intento del regista Keith Wagner in questo primo allestimento italiano di distaccarsi dal precedente statunitense e di realizzare una lettura personale e originale. Con la difficoltà in più di trovarsi ad agire nelle ridotte dimensioni del palcoscenico del Teatro Poliziano di Montepulciano. Per risolvere il problema dello spazio ristretto disponibile per le scenografie ha fatto ricorso a porte di vetro semitrasparente, mobili su carrelli, e componibili in vari modi a formare, a seconda delle varie combinazioni, lunghi mezzi-sipari brechtiani piuttosto che claustrofobiche stanze-gabbie. Dietro o davanti potevano esser montati i letti, i tavoli per le cene dei militari graduati e quant’altro. Di tanto in tanto le porte a vetri dello scenografo Ashley Martin-Davis diventavano teche da entomologhi, a contenere i personaggi immobili da presentare e studiare come insetti infilzati. Per le poche e brevi scene di esterno nel bosco o tra le rovine del castello il regista si è servito di proiezioni in bianco e nero alquanto banali sul fondale.
La vera sfida della regia si è però rivelata l’idea di proporre una Fosca per nulla brutta, non sfigurata da cicatrici o da trucchi cadaverici, anzi decisamente carina, molto simile a Clara non solo nell’aspetto fisico ma anche nelle consonanze tra le voci delle due interpreti (pur nelle differenze tra i registri, Fosca mezzo-soprano, e Clara soprano). Azzardata la lettura di Warner di unificare le due figure in un generico femminino universale, come a sostenere che la bellezza è solo negli occhi di chi guarda e non un dato di oggettive differenze estetiche, così che Giorgio debba/possa finire per innamorarsi di Fosca attraverso un percorso totalmente responsabile praticato lungo i binari di un ideale fuori dai canoni sociali e dal concetto di armonie condivise.
Una lettura di tal genere del soggetto di Tarchetti/Scola/Sondheim sarebbe in sé davvero interessante se portata fino all’estremo in una disputa filosofica e teorica e non andasse in contraddizione con l’aspetto fisico della passione amorosa. Si resta totalmente sconcertati quando nella scena del’opening si vedono in scena i due amanti a letto all’apice del piacere vestiti in camicioni e crinoline. Tanto più che per il ruolo di Giorgio è stato scelto un tenore come Philip Smith che è la negazione vivente di ogni possibile sex-appeal maschile.
La censura puritana dell’amore carnale toglie il fondamentale confronto con la disperazione del personaggio di Fosca per la quale quel tipo d’amore costituisce l’orizzonte irraggiungibile di una maledizione incolpevole. Senza il visibile contradditorio tra le due figure femminili viene meno la base dell’intero dramma e diventa difficile trovare una convincente soluzione narrativa, alternativa che sul palco del Poliziano è stato francamente difficile individuare.
Se a ciò si aggiunge che l’andirivieni delle porte di vetro finisce per diventare meccanico, prevedibile e monotono, si può capire la nostra sostanziale insoddisfazione alla fine dello spettacolo. Non per demerito degli interpreti, una palpitante Janie Dee come Fosca, accanto a una Anna Gillingham dalle morbide forme e dal cristallino impasto vocale nella parte di Clara. Philip Smith costruisce a sua volta un Giorgio volutamente spento e pieno di rovelli, appassionato più nelle dichiarazioni che non nell’esternazione dei sentimenti. Adeguatamente sfuggente ed elusivo come si richiede al suo personaggio si è dimostrato il baritono Eric Roberts come Dottor Tambourri. Del tutto convincente anche l’intero cast composto da Richard Berkeley-Steele, Michael Kristensen, Florian Plock, Adam Temple-Smith, Jake Muffett, Peter Marsh, Ben Smith, Verena Gunz, Malcolm Rivers, Maren Favela a cui si sono aggiunti come supporto alcuni allievi della Bernstein School di Bologna.
Davvero importante a riequilibrare il risultato finale dello spettacolo è stato l’apporto del m°Roland Böer che ha diretto in modo esemplare un’orchestra di pochi elementi, scoprendo e restituendo quelle sonorità avvolgenti e sempre ossessive che fanno di Passion un capolavoro ancora tutto da esplorare. Ma almeno il primo passo è stato fatto. Finalmente!!!!!