MY FAVOURITE THINGS
di Ilaria Faraoni
Titolo: A Chorus Line.
Ideato, coreografato e diretto da Michael Bennett – Libretto: James Kirkwood e Nicholas Dante – Musiche: Marvin Hamlisch – Liriche: Edward Kleban – Prodotto da Joseph Papp, a New York Shakespeare Festival Presentation
Debutto: 25 luglio 1975 allo Shubert Theatre di Broadway (dopo il workshop del 1974 e la prima messa in scena Off-Broadway – 21 maggio 1974 – al Public Theater).
Cast originale di Broadway (in ordine alfabetico): Scott Allen (Roy), Renee Baughman (Kristine), Carole Bishop (Sheila), Pamela Blair (Val), Wayne Cilento (Mike), Chuck Cissel (Butch), Clive Clerk (Larry), Kay Cole (Maggie), Ronald Dennis (Richie), Donna Drake (Tricia), Brandt Edwards (Tom), Patricia Garland (Judy), Carolyn Kirsch (Lois), Ron Kuhlman (Don), Nancy Lane (Bebe), Baayork Lee (Connie), Priscilla Lopez (Diana), Robert LuPone (Zach), Cameron Mason (Mark), Donna McKechnie (Cassie), Don Percassi (Al), Michael Serrecchia (Frank), Michel Stuart (Greg), Thomas J. Walsh (Bobby), Sammy Williams (Paul), Crissy Wilzak (Vicki).
Versione cinematografica: A Feuer and Martin Production – Richard Attenborough’s film – Distribuito da COLUMBIA PICTURE
Anno: 1985 – Musiche: Marvin Hamlisch – Liriche: Edward Kleban – Arrangiamenti: Ralph Burns – Costumi: Faye Poliakin – Scene: Patrizia Von Brandenstein – Film editor: John Bloom – Direttore della fotografia: Ronnie Taylor B.S.C. – Coreografie: Jeffrey Hornaday -Produttore esecutivo: Gordon Stulberg – Sceneggiatura: Arnold Schulman – Prodotto da Cy Feuer e Ernest H. Martin – Regia: Richard Attenborough
Cast (in ordine alfabetico): Michael Blevins (Mark), Yamil Borges (Morales), Jan Gan Boyd (Connie), Sharon Brown (Kim), Gregg Burge (Richie), Michael Douglas (Zach), Cameron English (Paul), Tony Fields (Al), Nicole Fosse (Kristine), Vicki Frederick (Sheila), Michelle Johnston (Bebe), Janet Jones (Judy), Pam Klinger (Maggie), Audrey Landers (Val) Terrence Mann (Larry), Charles McGowan (Mike), Alyson Reed (Cassie), Justin Ross (Greg), Blane Savage (Don), Matt West (Bobby).
TRAMA:
Il regista e coreografo Zach, che si accinge ad allestire un nuovo spettacolo, deve scegliere i ballerini che faranno parte della fila. Dopo durissime selezioni, chiederà agli aspiranti rimasti qualcosa di speciale che va oltre la danza, mettendone a nudo le personalità.
Ai casting si presenta anche Cassie, sua ex e prima ballerina disposta, pur di danzare e di ottenere una scrittura dopo un anno di stop, ad unirsi ai ballerini di fila. Ma Zach ha un’altra idea della chorus line…
CURIOSITÀ:
- Nel 1975 A Chorus Line ricevette 12 nomination per i Tony Awards, vincendone 9: miglior musical, migliore attrice (Donna McKechnie), miglior attore non protagonista (Sammy Williams), migliore attrice non protagonista (Kelly Bishop), miglior regista, miglior libretto di musical, migliori musiche, miglior disegno luci (Tharon Musser) e miglior coreografo.
- Nel 1976 il musical vinse anche il premio Pulitzer per la drammaturgia.
- Baayork Lee, che aveva partecipato al workshop da cui nacque A Chorus Line, presente anche nel cast originale di Broadway nel ruolo di Connie (che contribuì a ideare), ha ricreato le coreografie originali di Bennett per diversi allestimenti del musical in giro per il mondo, collaborando, in Italia, con la Compagnia della Rancia.
- Michael Bennett rifiutò di dirigere il film perché non venne approvata la sua idea di impostare il soggetto come se si trattasse di un’audizione di ballerini per la versione cinematografica dello spettacolo.
- Nel libro Entirely Up to You, Darling (scritto con Diana Hawkins) Richard Attenborough racconta che gli fu detto che tra le candidate da lui non selezionate, ci sarebbe stata una ragazza di 26 anni, dal cognome Ciccone, che di lì a poco avrebbe debuttato con il suo primo album: Madonna.
- Mikhail Baryshnikov (che secondo Attenborough, nel già citato libro, era stato interessato al ruolo di Zach, così come John Travolta) ospitò – nel 1980 – il cast di A Chorus Line nel suo show televisivo Baryshnikov on Broadway (con Liza Minnelli inserendosi nel numero più famoso, One – Cliccare QUI per vedere il video – Baryshnikov on Broadway – From “A Chorus Line” – “One”
- Quando nel 1983 A Chorus Line diventò lo spettacolo più longevo di Broadway, Bennett creò una serata evento assemblando un cast di 300 performer tra interpreti di quel momento e interpreti precedenti o di allestimenti internazionali. I diversi cast si alternarono o si esibirono contemporaneamente, all’interno della storia. Ecco il video dello spettacolare numero finale.[divider]
N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.
Si ringrazia in modo particolare Pietro Pignatelli che, nonostante impegnato in vari progetti tra i quali La congiura (OperaMusical di Riz Ortolani), si è dedicato alla rubrica con grande disponibilità, scrivendo di suo pugno le risposte. Tra i prossimi impegni: Oscar Wilde, il processo, a luglio, e la seconda stagione de La Regina di Ghiaccio.
Sito Ufficiale di Pietro Pignatelli: http://www.pietropignatelli.com/
Pietro, perché hai scelto di parlare di A Chorus Line?
Perché non si può parlare e raccontare di musical senza partire dal re dei musical. E A chorus line lo è di diritto. E non starò qui a sparare record, sottolineando la longevità on stage, o i favolosi premi vinti o il numero incredibile di spettatori che lo hanno visto prima a teatro, a partire dalla sua originaria collocazione in ambito OFF per poi finire doverosamente in Broadway e da qui poi al cinema. Ma parlerei piuttosto di uno spettacolo che ha veramente stravolto le regole, rivoluzionando il genere.
La scelta mi incuriosisce in modo particolare perché è un musical incentrato sulla danza ed è un titolo cult per i ballerini. Qual è il tuo rapporto con la danza?
Lo so che sembra strano che proprio io che non sono un ballerino (che però amo tantissimo la danza e in particolar modo quella contemporanea) abbia scelto di parlare di un musical che è interamente costruito sulla danza, ma A chorus line paradossalmente va oltre i conteggi “e 5, 6, 7 e 8“. È teatro nel teatro, è una seduta di psicanalisi di gruppo, è uno spettacolo drammatico vestito da musical. La danza è il pretesto, la partenza per poi trasformarsi in un processo intimo e profondo alla scelta sofferta di chi vuol credere ancora nei sogni.
Quali edizioni teatrali hai visto?
L’edizione italiana, ovviamente, del 1998… se non erro. All’epoca non avevo ancora capito quanto mi potesse servire vedere spettacoli all’estero, ma devo dire che rimasi molto colpito dalla bravura dei performer e dal convincente allestimento della Compagnia della Rancia. Ero rapito. Mi faceva male lo stomaco, perché era come se vivessi l’ansia e l’entusiasmo dei personaggi in scena che in quel momento erano me ed io ero loro. Una vera catarsi per me e sono certo per chiunque faccia o aspiri a fare questo mestiere. (Video promo di A Chorus Line del 2008 – Compagnia della Rancia)
L’importanza di A Chorus Line nell’evoluzione del musical
L’ho accennato prima e ne arricchisco il concetto qui di seguito. Questo musical segna un grande passaggio dal vecchio al nuovo modo di concepire il musical. Un passaggio che per essere sintetici, può essere rappresentato ad esempio dal tipo di allestimento povero, essenziale: specchi e luci, in uno spazio vuoto in cui è l’attore a riempire, con i suoi racconti, l’intera scena. O dalla trama, non più semplice ed immediata. O dal modo di presentare le canzoni che non si limitano a restare in superficie raccontando la storia dello spettacolo, ma scendono già nel profondo e si pongono a servizio dei personaggi per mettere a nudo le loro vicende personali, fatte di ingiustizie, sofferenze, voglia di riscatto e uno sterminato entusiasmo.
Quanto di A Chorus Line rivivi nelle audizioni nostrane? Quali differenze riscontri? Hai mai incontrato un regista come Zach?
Lo dicevo anche prima parlando delle emozioni che ho vissuto da spettatore ad una replica dell’edizione italiana. È vero, tutto vero, ciò che i personaggi vivono in scena in quel pomeriggio di audizioni per un ipotetico futuro spettacolo. A me succede lo stesso ancora oggi. Certo l’età ha mitigato un po’ le paure che inizialmente erano terrore puro! Ma l’ansia da prestazione e la voglia di sparare in quei pochi minuti tutte le cartucce, pur di far colpo sul regista o sulla commissione esaminatrice, rimangono invariate nel tempo. In Italia devo dire che le audizioni andrebbero un po’ migliorate. E qui ovviamente scatta la piccola polemica. Non poche volte ho assistito a scene vergognose che non c’entrano nulla con la severità dell’esaminatore, ma con l’organizzazione proprio delle audizioni, come ad esempio i tempi biblici e le convocazioni poco chiare. Gente che dopo una giornata intera è dovuta tornarsene a casa (magari in Sardegna) perché non c’era più tempo per provinarla. Persone scartate sulla danza, quando era stato chiesto loro di presentarsi solo come attori e/o cantanti. Call back che dovrebbero essere il risultato di una ricca scrematura, più affollati delle prime selezioni. O altre situazioni non proprio belle che portano gli ultimi arrivati a pronunciare frasi del tipo: «tanto è inutile, prendono sempre gli stessi!». Ecco, tutto questo dovrebbe essere evitato. Ma non è sempre così ovviamente, ho fatto dei provini che, al di là del risultato, alla fine mi hanno lasciato una vera lezione di vita e che ho vissuto come un’esperienza di formazione. Con registi che erano lì a lavorare con te per cercare di capire insieme quanto e fin dove potevi veramente indossare i panni di quel personaggio per cui ti presentavi.
Parliamo di Michael Bennett che ha ideato, diretto e coreografato A Chorus Line. Riscontri delle costanti nel suo lavoro? Ricordiamo che ha coreografato, tra gli altri, Company, Promises Promises, Follies, che ha anche diretto con Harold Prince…
Michael Bennett credo sia stato uno che non si è mai seduto sugli allori. Il denominatore comune di tutti i suoi successi è stata la sua approfondita conoscenza del teatro musicale, per il quale ha praticamente ricoperto ogni ruolo: ballerino, coreografo, regista, drammaturgo. Non sbagliava mai un colpo. E i premi importantissimi che ha ricevuto ne sono una conferma: Tony Awards, Pulitzer, Premi della critica.
La prima messa in scena dello spettacolo è degli anni Settanta. Il film è degli anni Ottanta. Due decenni molto diversi tra loro. Si avverte secondo te l’influenza dei due periodi?
Ogni artista è figlio dell’epoca in cui vive e opera. E se l’epoca d’oro del musical è stata attribuita giustamente al periodo che va dagli anni trenta fino agli anni cinquanta in America, sicuramente gli anni settanta sono stati anni molto interessanti: anni di libertà, di lotte politiche, di trasgressione. In campo artistico e, in particolar modo in quello musicale, c’è stata una vera e propria rivoluzione che ha preparato il terreno, a mo’ di fertilizzante potentissimo, per gli anni ottanta. E A chorus line ha attraversato entrambi i decenni, prima a teatro poi al cinema. Con le più disparate reazioni da parte del pubblico.
Parliamo della regia della versione cinematografica del 1985 di Richard Attenborough che tra l’altro aveva vinto nel 1983 l’Oscar per la regia di Gandhi.
Ovviamente le trasposizioni cinematografiche non sono mai viste di buon occhio dagli amanti del genere e così è stato anche per questo musical. Il film del regista britannico Richard Attenborough, a cui lo stesso Bennett non volle partecipare, risultò agli occhi del pubblico affezionato, molto deludente per alcuni tagli e modifiche operate sulle canzoni e sulle scene presenti in questo spettacolo intimamente americano. Fu anche censurato un argomento per Bennett importantissimo e dichiarato invece a teatro, l’omosessualità. Ma nonostante le polemiche il film ha portato a casa i suoi successi e le sue grandi nominations.
Cosa il film non è riuscito ad eguagliare dello spettacolo teatrale e cosa invece è riuscito ad esaltare maggiormente e come?
A parer mio, lo spettacolo è molto più stimolante del film. Il pubblico a teatro ha la possibilità di scegliere dove porsi, se con Zach o con i ragazzi, se far parte quindi dell’inflessibile commissione selezionatrice o condividere sudore e lacrime con quel manipolo di giovani sognatori. Al cinema segui una storia che non ti invita a una scelta attiva, empatica. Osservi, ascolti, ma in modo appunto passivo, distaccato. Non c’è stato quel passaggio evolutivo geniale nella trasposizione cinematografica che invece ci si aspettava da un regista da Oscar come Attenborough.
Le musiche di Hamlisch
Marvin Hamlisch era un grande! Scomparso mi pare pochi anni fa. Ho amato le sue composizioni. Anche lui un artista da Oscar, ben tre ne ha portati a casa e non solo: credo sia uno dei pochi ad aver vinto tutto ciò che c’era da vincere in ambito musicale. La sua è stata una gavetta importante: da pianista accompagnatore dei grandi divi della musica americana, come Liza Minnelli a compositore di colonne sonore straordinarie, come The way we were, cantata da Barbra Streisand. Fino all’avventura teatrale con A chorus line. Incredibile come di alcuni suoi brani, basta fischiettarne poche note perché siano riconosciuti da chiunque. Provare per credere con One, singular sensation…
I pezzi tagliati o presentati in veste diversa ed i pezzi scritti apposta per il film (What I did for love nel film è cantata da Cassie sul sottofondo della Tap combination, cambiandone il senso – Hello Twelve, Hello Thirteen, Hello Love è parzialmente eliminata e sostituita dal nuovo brano Surprise, Surprise – Let Me Dance for You cantata da Cassie sostituisce The music and the mirror… di cui riprende però alcuni versi).
Dei brani tagliati e modificati ne ho già parlato, ma su uno in particolare credo che la trasposizione cinematografica abbia veramente toppato. Ed è What I did for love, che rappresenta una dichiarazione d’amore che ogni ballerino (e io aggiungerei performer), fa alla sua arte. Dopo la caduta di uno dei candidati che è costretto ad abbandonare l’audizione, arriva la domanda cruciale: «Che cosa faresti se dovessi smettere di danzare?» E da qui nello spettacolo parte una bellissima riflessione di gruppo che porta alla comune considerazione finale, che è un po’ quella che farebbero anche i performer oggi, ossia che qualunque destino li attenda, non potrà mai cancellare l’amore che hanno per la danza… per il teatro! Ecco, cambiarne il senso, trasformandola in una canzone d’amore di Cassie per Zach, mi è sembrata una pessima scelta registica.
Qual è il tuo pezzo preferito e perché?
Il mio brano preferito? Sicuramente “Nothing”. Ecco, in questo momento la sto canticchiando e sorrido. È proprio ciò che pensavo anche io alle lezioni di teatro. E non perché non amassi la sperimentazione e la ricerca, ma certe volte si esagerava e mi annoiavo da morire. E poi quel giudizio cattivissimo di Mr. Karp: «Morales tu non sarai mai un’attrice, mai!». «Grrrr, ma vaff… chi sei tu per dirmi una cosa simile?!», la mia risposta… il mio sfogo. Contro Karp e i tanti professori o registi infami che, senza alcuna finezza, sputano sentenze annientatrici. E subito dopo “Singular sensation”, un gioioso inno all’amore per il teatro.
Dance: Ten; Looks: Three… Val è dovuta ricorrere alla chirurgia estetica per essere scelta ai vari casting. Come vedi la situazione in Italia?
Oggi si ricorre alla chirurgia plastica con troppa facilità. Spesso anche inutilmente. A teatro poi lo trovo inconcepibile. Non conosco colleghi o presunti tali che hanno modificato il loro aspetto esteriore per andare incontro ad esigenze di copione (almeno che non si tratti del colore o della lunghezza dei capelli, della barba o cose del genere). Io addirittura non concepisco il tatuaggio sul corpo degli attori o dei danzatori. Perché credo nell’ammonimento dei vecchi maestri: considerate il vostro corpo come una pagina bianca su cui poter scrivere un personaggio, una storia. Figuriamoci cosa ne penso dei trattamenti chirurgici. Un po’ come chi arriva a sfiorare la pazzia per arrivare all’immedesimazione col personaggio. Il teatro è il più bello dei “giochi”. Con regole di base severe e a volte tanto complicate, ma oltrepassare il limite lo rende un gioco stupido e anche pericoloso. Dovremmo invece coltivare la nostra unicità, che è a mio parere un dono preziosissimo.
Il concetto di LINE. Zach pone l’accento sul fatto che Cassie non possa far parte della fila perché è speciale: nella fila non ci si può e non ci si deve distinguere. Sei d’accordo? In base alla tua esperienza, c’è questa convinzione nei nostri registi e coreografi?
Parlare della Chorus line o del confine astratto (mica tanto) che separa i ruoli dall’ensemble, mi riporta alla mente le lunghe chiacchierate fatte con una mia cara amica che per tutta la sua carriera ha scelto o per lo meno si è sempre proposta per entrare nel corpo di ballo degli spettacoli a cui ha preso parte. Le chiedevo ingenuamente: «Perché non provi a “salire di grado”? Proponiti per un ruolo!». E lei mi rispondeva sempre che non era una scelta di comodo la sua, né di consapevolezza dei propri limiti, ma d’amore: «Io amo danzare e ancor più all’unisono con altre anime, sentire il mio corpo nel suo movimento e in perfetta sintonia con quello degli altri. È un lavoro duro, fatto di concentrazione, empatia, tecnica, sensibilità. Cosa sarebbero certi balletti senza il corpo di ballo? O certe opere senza il coro? Indispensabile in certi casi e bello da vedere sul palco… sempre!».
Nel film, l’austero Zach evidenzia questa separazione, soprattutto per l’amore che nutre ancora per Cassie e glielo dice soprattutto per stimolarla a cercare una sua strada. Ma sul concetto non sono completamente d’accordo con lui: «Nessuno deve distinguersi!»… ma come si fa?! Volendo fare un paragone che si astrae apparentemente dal contesto artistico, tirerei in ballo la termodinamica. Un corpo umano è un sistema termodinamico aperto che scambia con il mondo esterno energia e materia. Figuriamoci un corpo di ballo!
C’è sempre uno scambio di energia e non solo tra il mondo esterno (palco, pubblico, teatro) e quello interno, fatto di tanti meravigliosi mondi complessi di uomini e donne, con i loro vissuti, i loro valori, le loro speranze. Addirittura io chiederei al corpo di ballo di tirar fuori l’unicità di ciascuno di loro, contaminando la coreografia, senza però distruggere il senso comune creato dal coreografo. Proprio come proponeva Van Gogh agli artisti del suo tempo, con il quadro “I girasoli”.
Qualcosa che non ti ho chiesto?
Si, questo è lo spettacolo che ho sempre sognato. E lo dico sinceramente. Nello specifico è Zach il ruolo che mi piacerebbe interpretare. Sarebbe per me una sorta di riscatto: non ho mai studiato danza, pur amandola all’inverosimile, e questo ruolo in modo catartico potrebbe curare questa mia piccola grande ferita che porto con me da ormai più di vent’anni di esperienza, nel magico mondo del musical.
Gran finale del film https://youtu.be/XinttB5BhEQ