di Ilaria Faraoni
MY FAVOURITE THINGS
Titolo originale: Phantom of the Paradise
Titolo italiano: Il fantasma del palcoscenico
Anno: 1974
Prodotto da: Edward R. Pressman – Produttore esecutivo: Gustave Berne – Casa: 20th Century Fox – Scritto e diretto da: Brian De Palma – Musiche e liriche: Paul Williams – Coreografie: Harold Oblong – Coreografie per il matrimonio: William Shephard – Interpreti principali: Paul Williams, William Finley, Jessica Harper, George Memmoli, Gerrit Graham. Archie Ann, Jeffrey Comanor e Harold Oblong interpretano di volta in volta i Juicy Fruits, The Beach Bums e The Undeads.
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TRAMA
Winslow Leach (William Finley) è un cantautore sconosciuto in cerca di un’occasione. Sta scrivendo un’intera e voluminosa cantata sul mito di Faust e l’occasione propizia sembra presentarsi quando, in un locale di Swan (un celebre produttore musicale a capo della Death Records, interpretato da Paul Williams) viene avvicinato da Philbin (George Memmoli), il braccio destro di Swan, che prende gli spartiti di Winslow con la falsa promessa di produrgli il primo disco. In realtà Swan vuole solo rubargli alcune canzoni per farle cantare a qualche gruppo rock di richiamo e inaugurare così il suo nuovo locale: il Paradise. Cacciato dalla Death Records, dove si era recato per chiedere spiegazioni, Leach conosce una giovane aspirante cantante, Phoenix (Jessica Harper), impegnata nelle audizioni indette da Swan per scritturare alcune coriste. Dopo aver scoperto che i provini sono basati sulla sua musica, Leach aiuta Phoenix nella preparazione e se ne innamora; dopo aver tentato di infiltrarsi, travestito da donna, in una delle orge organizzate da Swan, solo per parlargli, viene nuovamente cacciato, picchiato, incastrato con della droga e sbattuto a Sing Sing, dove gli vengono sostituiti tutti i denti con una dentiera metallica (dietro la cosa c’è sempre Swan). Riuscito a scappare dal carcere in preda ad un attacco di furia dopo aver ascoltato, per radio, il furto della sua musica, Leach si reca nuovamente alla Death Records dove, inavvertitamente, rimane intrappolato in una pressa, rimanendo sfregiato e perdendo la voce. Creduto morto, diventa il fantasma del Paradise, posiziona una bomba sotto la macchina dei Juicy Fruits ma, prima di riuscire del tutto a vendicarsi, viene raggirato nuovamente da Swan che gli restituisce artificialmente la voce e lo mette sotto contratto: dovrà riscrivere e terminare la sua musica per Phoenix. Ma Swan, che non tollera la perfezione tranne che in se stesso, presto cambia idea e sostituisce la ragazza con la rockstar Beef (Gerrit Graham). Il contratto di Leach, firmato con il sangue, implicherà un legame con Swan (che ha già venduto l’anima al diavolo venti anni prima) che Winslow non immagina.
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CURIOSITA’
- Il film, per quanto riguarda la storia, prende ispirazione da varie opere letterarie, come Il Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux (1910), il Faust (versione di Goethe in testa), Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891 prima stampa in volume).
- Gerrit Graham che interpretava Beef, per la canzone “Life at Last” fu doppiato da Ray Kennedy
- La casa discografica doveva inizialmente chiamarsi Swan Records, ma una reale casa discografica, il cui nome era troppo simile, protestò perché si riteneva danneggiata. L’etichetta divenne così Death Records.
- Nei credits, in veste di set dresser figura Sissy Spacek, l’attrice che nel 1976 avrebbe interpretato, diretta dallo stesso De Palma, il ruolo che l’avrebbe resa famosa nel film Carrie – Lo sguardo di Satana.
[divider]N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.
Giampiero, perché hai scelto “Il Fantasma del Palcoscenico?
Ho scelto Phantom of the Paradise di Brian De Palma perché quando uscì mi incuriosì subito la storia: per chi non lo conosce, è importante sapere che il film ha dei riferimenti a Il fantasma dell’Opera di Leroux, al Faust e non solo.
Quando uscì non fu un successone, De Palma fu criticato. In realtà, come tutti i film belli, è diventato un cult per le generazioni successive. Io lo vidi al cinema ed impazzii, perché adoro quel tipo di musica scritta da Paul Williams e, a parte la trama, ci sono tantissimi segni degli anni ’70; mi piacque anche per l’interpretazione degli attori, per esempio quella di Jessica Harper: non dico che me ne fossi innamorato ma mi piaceva tantissimo, così carina, minutina, con quella voce…
Il film mi colpì innanzitutto per il riferimento al Faust: Swan che vende l’anima al diavolo; poi mi piaceva moltissimo Il Fantasma dell’Opera e tenete presente che all’epoca non esisteva ancora il musical di Webber: parlo del romanzo di Leroux. Poi c’è anche un riferimento a Il ritratto di Dorian Gray di Wilde: è la pellicola in cui è filmato il suo patto col diavolo che invecchia al posto di Swan. Tutte queste citazioni mi colpirono. C’è anche un’allusione a Frankenstein nella scena del concerto di inaugurazione del Paradise, quando fingono di assemblare Beef [mettendone insieme il corpo con membra tagliate a finti spettatori, ndr]. Sempre nella stessa scena ci sono riferimenti agli appena nati Kiss (nel trucco del gruppo) ed al film Il gabinetto del dottor Caligari [1920, emblema dell’espressionismo tedesco, regia Robert Wiene, ndr].
Quindi mi piacque dal punto di vista, “culturale”, perché c’era una citazione dopo l’altra, comprese quelle di film in bianco e nero e dell’orrore di cui ero appassionato.
Le musiche di Paul Williams
Quando sentii le musiche impazzii! All’epoca non esistevano i CD, c’erano gli LP: lo consumai quel disco! Mi piacevano quelle atmosfere un po’ malinconiche. Tra l’altro Paul Williams ricevette una nomination all’Oscar per la migliore colonna sonora.
A parte il rock ‘n’ roll, a parte una fortissima citazione dei Black Sabbath nell’introduzione della canzone d’apertura del concerto al Paradise (“Somebody Super Like You“) che ci stava in pieno -perché il film è tutto un riferimento ad un certo tipo di letteratura e ad un certo tipo di musica – mi piacquero tutte le canzoni. Poi apprezzavo che il gruppo fosse sempre lo stesso ma cambiasse nome, costume e trucco in base a quale gruppo dovesse interpretare, dai Juicy Fruits [con il brano anni ’50 “Goodbye, Eddie, Goodbye” sui titoli di testa, ndr] agli Undeads [nel già citato concerto, ndr] tutti vestiti di nero: in “Somebody Super Like You” ci sono chiarissimi riferimenti all’horror, al grand-guignol di quello più bieco. Con il manico delle chitarre a forma di lama tagliano una testa, le braccia, il busto, le gambe di spettatori fantoccio [per assemblare poi la Creatura/Beef, ndr]; è una mia idea, ma Gene Simmons, il bassista dei Kiss, negli anni a venire ha adottato un basso a forma di ascia: potrebbe essere un’idea presa dal film, perché lui è diventato “il demone” per la sua grande passione per i film horror. Tra l’altro, pochi giorni fa, i Kiss sono finalmente entrati nella Rock and Roll hall of fame. Comunque preciso che il musical non è hard rock, ma rock ‘n’ roll.
Da ragazzo rimasi affascinato da tutto questo. Poi era anche il periodo del Rocky Horror Picture Show [il film è del 1975, ndr]. Mi ricordo che andavo alla Ricordi di Piazza Indipendenza a Roma, che ora non esiste più, ma che allora era uno dei punti di riferimento, perché ancora non esistevano quei negozietti specializzati: lì trovai la colonna sonora del Rocky Horror e la volta successiva vidi questo Phantom. Bisogna considerare che l’impatto che aveva un LP era speciale, lo stesso che ha il cartaceo rispetto al web. Prendevi in mano questo cartone enorme, dove c’era scritto tutto, in grande: ti mettevi a leggere… Anche l’odore della carta era una cosa diversa: ora non voglio apparire vecchio, ma è così. Quindi presi questo LP e vidi prima la scritta, Phantom of the Paradise, poi le loro facce, lo girai chiedendomi: “Mamma mia, ma cos’è questa cosa? Fico! Lo compro!”. Ascoltandolo impazzii come ero già impazzito per il Rocky Horror Picture Show. Sono rimasto affezionatissimo a questo film e mi sembra strano che nessuno l’abbia mai messo in scena… Mi piacerebbe davvero farlo, come regista. Ogni volta che lo vedo, come mi succede quando riguardo i film di 007 degli anni ’70, torno indietro nel tempo. Quindi probabilmente è anche un fatto nostalgico, ma le musiche ce l’ho nell’iPod, dove, come colonne sonore di musical, ho Jesus Christ Superstar, il Rocky Horror e pochi altri. Ogni volta che sento i pianoforti, la canzone della scena in cui lui Leach compone chiuso nella sala di registrazione, c’è qualcosa che si smuove dal cuore e che viene dalla cultura musicale che ho; ora non so se gli amanti del musical di oggi, o quelli che amano il genere di Tutti insieme appassionatamente, possano gradire la cosa: di certo Phantom of the Paradise è un pezzo di vita di quegli anni.
E negli anni me ne sono innamorato: ogni volta che lo vedevo scoprivo qualcosa di nuovo, perché lo vedevo con gli occhi dell’età in cui ero in quel momento.
Gli anni Settanta
Quello in cui il film fu prodotto e uscì era un periodo di fermento, arrivava in Italia tutta la cinematografia americana degli anni ’70: erano film di rottura, di denuncia, quindi ogni titolo era un film importante, come Serpico, per esempio. Anche Phantom of the Paradise ha un aspetto di denuncia perché parla del successo, della droga, dei compromessi fatti nel mondo dello spettacolo e nella vita in generale. Ci sono degli stereotipi voluti da De Palma e probabilmente anche da Paul Williams.
Beef per esempio è la parodia della rockstar un po’ sciocca: è terrorizzato dal pubblico ma poi si scatena quando è sul palco. La scena sotto la doccia, quando il Fantasma lo minaccia, è una citazione di quella famosissima di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, anche se nel Phantom tutto è risolto in modo ironico con la ventosa con cui Leach tappa la bocca a Beef [invece di pugnalarlo, ndr].
Tra l’altro c’è il contrasto tra la prima presentazione in conferenza stampa all’aeroporto, dove Beef viene fuori da una bara, con un’immagine molto forte, dura, con un’espressione ed un verso terrificanti ed il modo in cui lo si vede dopo, addirittura con i bigodini: è uno degli esempi dell’ironia di De Palma in questo film. Anche perché la prima presentazione di Beef richiama quella del sonnambulo Cesare cui accennavi prima, parlando de “Il gabinetto del dottor Caligari”.
Sì, assolutamente! Penso che De Palma abbia fatto una scorpacciata di tutti i film di quel genere ed abbia assorbito tanto. Il Gabinetto del Dottor Caligari è un film che vidi quando ero piccolo, probabilmente in TV: era un film di una inquietudine allucinante anche per via della scenografia, così tutta storta…
A tal proposito, in alcuni tipi di inquadrature e scenografie che giocano su architetture un po’ sghembe, sul senso circolare, ossessivo, claustrofobico, trovo un richiamo al cinema espressionista degli anni Venti. Non per niente il “Gabinetto del dottor Caligari” o il “Faust” di Murnau sono riferimenti abbastanza forti nel film. Penso alla struttura e all’inquadratura degli interni della Death Records, all’ambiente circolare opprimente della sala d’incisione dove è rinchiuso Leach, alla scrivania/disco di Swan con gli elementi che ruotano intorno, o all’orologio e alle lancette che girano mentre Winslow compone.
Sì esatto! Poi la stessa etichetta della Death Records è inquietante.
In tutto questo non dimentichiamoci che il film è anche una storia d’amore, un amore grande al punto da sacrificare la propria vita. Quando Winslow osserva dal tetto Phoenix e Swan a letto insieme, emette un urlo tremendo e tenta di uccidersi. Più romantico di così…
Anche in quella scena, con l’inquadratura della casa scura, contro un cielo illuminato da un fulmine, si può vedere una citazione di Frankenstein.
Sì, come pure nella famosa scena del concerto di cui abbiamo già parlato: Beef viene creato come Frankenstein e si muove come lui ed è bellissimo con quegli zatteroni anni ’70. Poi non dimentichiamo la citazione de Il fantasma dell’Opera quando Leach/Phantom dice che solo Phoenix può cantare la sua musica.
Mi meraviglio veramente di come un film del genere, che ha un’importanza ed una eleganza tali, non circoli molto. Non so neanche se molti lo conoscano. Mi stupisco di come non abbia la stessa risonanza di Jesus Christ, del Rocky Horror e di Tommy, che sono tutti di quel periodo.
Penso anche agli arrangiamenti… È un film tra virgolette “datato”, ma datato riguardo ad un periodo bello, non è certo un film degli anni ’90. Negli anni ’70 è successo di tutto, musicalmente, culturalmente e non solo.
E poi un Brian De Palma che si addentra nel mondo del musical… l’unica sua incursione nel campo musicale, credo.
È un film che dovrebbero vedere tutti gli appassionati di musical. Tanti non conoscono Oklahoma!, Il Re ed io, Man of La Mancha: troppo spesso la cultura del musical parte, ahimé, da Grease in poi.
Phantom of the Paradise è un film che va visto: nostalgico, crudele, un film importante che insegna molte cose.
A parte la storia d’amore di cui parlavi, alla fine non c’è un solo personaggio positivo: perché secondo te?
Di morale ce n’è parecchia: c’è l’ammonimento a non vendere l’anima al diavolo, a stare attenti… I messaggi più semplici sono questi. Secondo me il fatto di non inserire un personaggio positivo è prima di tutto tipico di quegli anni: molte volte i personaggi inizialmente positivi si trasformavano in personaggi negativi, basti pensare ai film con Al Pacino come Cruising. Qui Winslow è un musicista che ha scritto delle cose, gliele rubano, va a finire in prigione, viene sfregiato, diventa a sua volta un assassino, ma continua a comporre delle canzoni bellissime per Phoenix. Lei è una ragazza in principio sprovveduta e ingenua, poi cade nella droga, nel giro del potere, viene abbindolata. Non parliamo di Swan che è l’incarnazione del male. Beef, il rockettaro, viene ucciso… Pensiamo alla grandissima scena finale, che mi sconvolse quando ero più giovane, in cui i fans continuano ad infierire sul corpo di Swan.
Sì infatti: nemmeno il pubblico si salva dalla negatività! Anche nella scena precedente in cui Leach/Phantom uccide Beef.
Certo! Nemmeno il pubblico si salva, ed è giustissimo! È il pubblico di pecoroni o, più in generale, quel pubblico che ti porta alle stelle e poi improvvisamente, per una sciocchezza che fai, o perché arriva qualcun altro, ti dimentica. E tutta quella scena finale, in cui la macchina da presa parte stretta e si allarga, fatta con il dolly, in cui il biondino pianta la piuma nel cuore di Swan e comincia a sgorgare il sangue, è un altro fortissimo segnale.. Non dico che sia un film politico, ma è un film sociale, con una morale molto forte e vuole insegnare, almeno credo, che anche i personaggi che inizialmente sono positivi, ma che poi si piegano alla vita e alla volontà dei più potenti, fanno una brutta fine: finisce male per tutti. Il potere, a lungo andare, ti fa male.
De Palma avrebbe anche potuto non ambientarlo nel mondo dello spettacolo.
Sì, togli le canzoni, togli il palcoscenico, è qualcosa che puoi rivedere in qualsiasi altro settore.
Cambiando argomento voglio sottolineare come, alla bellezza di questo film, per noi che siamo abituati al doppiaggio, abbiano contribuito anche i doppiatori. Le voci di Leach e Swan sono di Manlio De Angelis e Cesare Barbetti, Phoenix è doppiata da Emanuela Rossi, l’attuale moglie di Pannofino, un’altra grande doppiatrice. Penso che Phantom of the Paradise sia stato un film in cui credettero molto in Italia, quando arrivò, perché lo fecero doppiare ad attori veramente forti.
Poi ha avuto diversi premi: per esempio, nel 1975, vinse il Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz.
Prima o poi mi aspetto un remake al cinema perché è un film talmente bello che mi sembra impossibile che nessuno ci pensi. Sicuramente non sarebbe all’altezza dell’originale ed oggi alcune cose farebbero ridere, come Leach che rimane intrappolato nella pressa della casa discografica. Anche le sonorità anni ’70 non si possono riarrangiare, non avrebbe senso. Il rock ‘n’ roll non lo puoi riarrangiare così come le varie ballad che sono presenti o come la canzone che canta Jessica Harper/Phoenix al provino, “Special to Me“: quel tipo di voce… Tecnicamente Jessica Harper ha quella voce con quel vibrato finale che è tipico degli anni ’70.
Anche l’idea di intitolare il locale Paradise, mentre è tutto fuorché paradisiaco è molto azzeccata.
Certo, è un gioco di parole, il Fantasma del Paradiso: chi non sa che il Paradiso è il nome del locale si chiederà cosa significhi…
Poi ricordiamoci che il protagonista, Winslow Leach, che come dicevamo prima inizialmente è un disadattato, è un buono, viene trasformato, diventa un freak, è costretto a nascondersi dietro ad una maschera inquietante. Quella maschera è bellissima, sembra un grande insetto. Anche qui, secondo me, Brian De Palma ha voluto calcare la mano per citare vari film di fantascienza dell’epoca. C’è anche un riferimento all’uomo dietro la maschera, all’uomo che è costretto a mascherarsi non per nascondersi, ma per far vedere realmente chi è. Quella maschera, dove si vedono quell’occhione enorme e quell’altro cieco, è inquietante; una maschera che serve per farsi riconoscere, un po’ come il trucco dei Kiss. Ci sono dunque diversi valori della maschera: come difesa, come riconoscimento, come strumento per incutere terrore e, da Batman in poi, possiamo aprire vari capitoli sull’argomento.
Tra l’altro, il personaggio di Leach, proprio all’inizio del film, quando canta Faust al pianoforte, rappresenta secondo me anche una parodia del cantautore anni ’70, cosa ne pensi?
Assolutamente. C’è tutto l’inizio del film che è così. È veramente una parodia in questo, rientra nel discorso delle citazioni.
Sei un fan di Brian De Palma: le sue caratteristiche?
Personalmente Brian De Palma, come John Carpenter, hanno su di me un effetto particolare, perché sono dei registi, a mio avviso, inquieti. Tutti i film di Brian De Palma e di John Carpenter mi lasciano, quando finiscono, un senso di inquietudine. Carrie – Lo sguardo di Satana (1976), Scarface (il remake di De Palma del 1983), Gli intoccabili (1987), Fury (1978), Blow Out (1981), Omicidio a luci rosse (1984), Femme fatale (2002)… in tutti i suoi film De Palma ti lancia dei rampini che poi sviluppa più avanti nel corso del film e tu mano a mano capisci… e ti lasciano sempre l’amaro in bocca come in Phantom of the Paradise. De Palma mi piace molto perché passa da Scarface a Carlito’s Way (1993), con il suo attore feticcio che è Al Pacino, che tra l’altro è il mio attore preferito, da Vittime di guerra (1989), bellissimo, a Il Falò delle vanità (1990) che prende in giro la società. Insomma: è uno che il suo mestiere lo sa fare molto bene. Ogni film, ogni genere che lui ha toccato – ed ha fatto anche Mission: Impossible (1996) – ogni film che ha scritto, mi lascia quel senso di inquietudine. È un malessere… lo definirei un malessere cinematografico. Tante volte vai a vedere un film, ti diverti, ti piace, è fatto bene, torni a casa e fine, il giorno dopo già lo hai dimenticato. Ci sono invece dei film, come quelli di Carpenter, di Brian De Palma e, in Italia, per motivi diversi, di Tornatore, che so che vanno a toccare delle mie corde particolari: quando torno a casa o finisco di vederli in TV, questi film mi rimangono per giorni e giorni, ci ripenso, li analizzo, mi rimangono attaccati! Non accade con gli altri. La stessa cosa mi succede con Pupi Avati, per altri versi ancora. Ci sono dei registi che mi restano, che sento molto, non so spiegare il perché, probabilmente hanno un modo di raccontare le cose – più che di girare – che è molto consono ad alcuni miei modi di pensare.
Avati per esempio ha una maniera malinconica di raccontare… ci sono dei film che fanno bene all’anima. Anche quelli di Tornatore.
Quindi dicevo che De Palma è un regista che mi crea inquietudine: ovviamente non è l’inquietudine procurata da qualcosa che fa paura. No, è qualcosa di più profondo. De Palma, qualsiasi argomento tratti, ha una sorta di approccio alla vita che mi affascina. Quando fece Omicidio in diretta (1998), un giallo/thriller con Nicolas Cage, nel piano sequenza d’apertura, bellissimo, ho ritrovato Scarface, Omicidio a luci rosse, Vestito per uccidere, Blow Out.
Phantom of the Paradise, è stato il film che mi ha fatto conoscere Brian De Palma e da lì in poi sono diventato un grande estimatore di questo regista.
Quindi galeotto fu Phantom of the Paradise…
Sì, galeotto fu il rock e galeotto fu l’horror, perché naturalmente se fosse stato un musical sull’ufficio colletti bianchi magari non avrei mai comprato quel disco. Certamente avrei scoperto De Palma in seguito. Successe la stessa cosa con il Rocky Horror: quando per la prima volta, sempre dal Ricordi di Piazza Indipendenza, tirai fuori questo LP coloratissimo, con la faccia di Tim Curry che sembrava una donna, mi chiesi “Ma chi è questa qui?”. Poi vidi Susan Sarandon, Meat Loaf, capii che si trattava di rock ‘n’ roll, apprezzai la bellezza della copertina con i colori pastello e volli capire di cosa si trattasse. Quando, a casa, misi il disco sul piatto e partì “Science Fiction” mi si aprì un mondo!
Com’è importante avere curiosità per le cose!
Assolutamente. E la stessa cosa fu per Jesus Christ Superstar. Certamente lì c’era un titolo forte ma nel 1973 io ero un ragazzino, non è che potessi sapere che in America c’era stato un musical teatrale. Anche perché come potevi scoprire certe cose? Non esisteva internet. Poi magari, nella pubblicità del film, venivi a sapere che era stato tratto da uno spettacolo. Ma cos’era il musical in Italia negli anni ’70?
Mi ricordo che il musical venne sdoganato con Cats. Frequentavo il laboratorio di Proietti nel 1983 e si diceva che c’era, a Broadway, un musical pazzesco sui gatti. Poi magari qualcuno andava a vederlo, ma non era come adesso: oggi i miei allievi vanno a Londra per vedere i musical. All’epoca era inconcepibile, se qualcuno aveva la fortuna di andare a Londra o, più difficilmente, in America, poteva capitargli, nei suoi giri, di vedere qualcosa e poi raccontava: “Ho visto uno spettacolo tutto cantato!”. Non si usava nemmeno la parola “musical”!
Non so neanche come arrivassero le colonne sonore in Italia, perché mi ricordo che ce n’era una copia sola: la comprai io, chissà se al negozio ne arrivò un’altra e dopo quanti mesi. A volte penso di essere stato uno dei primi a godere di queste cose. La musica in questo mi ha aiutato: il fatto di ascoltare il rock, di cercare sempre cose nuove; c’erano il progressive, la ricerca, i vari gruppi…
Ed il musical è legato, non si scappa, ad un fattore musicale. Perché un musical è bello? Perché ha delle musiche belle e per belle non intendo bene arrangiate, no: intendo musiche che ti trasmettano qualcosa, che ti emozionino! Altrimenti si fa altro. Da ragazzino non capivo nemmeno i testi, che erano in inglese: mi affascinava la musica e ancora oggi è così! Sono le note mescolate che creano qualcosa e che ti emozionano. Sono molto estremista in questo, ma se una canzone ha un testo pazzesco ma la musica brutta, non la ascolto!
Per me Phantom of the Paradise è un piccolo capolavoro ma molti non lo conoscono: speriamo che questo articolo e questa rubrica servano a rilanciare questi capolavori dimenticati.
Cosa diresti per convincere i lettori a guardare il film?
Per convincere i lettori a scoprire questo capolavoro direi innanzitutto che è uno dei primi film di un grande regista attualissimo che è Brian De Palma. Poi per chi ama il musical, per chi ama un certo cinema di genere e per chi vuole scoprire o riscoprire i famosi anni ’70, che sono stati FONDAMENTALI per la cultura di oggi, Phantom of the Paradise è un film da avere assolutamente! Attenzione: non solo da vedere, ma proprio da avere, da conservare gelosamente perché non solo è uno spaccato di vita dell’epoca, ma soprattutto è un film colto, pieno di citazioni, è un film che emoziona ed io penso che la cosa principale di un’opera sia quella di emozionare. Racconta una storia più o meno conosciuta ma dietro quelle citazioni, dietro quella trama apparentemente semplice, c’è un mondo che continua a pulsare e che non è solo quello dello spettacolo, ma è quello della vita di ogni giorno. È la lotta che ognuno di noi, quotidianamente, fa per sopravvivere.
Ci troviamo sì davanti ad un’enorme macedonia di riferimenti, ad un prisma con duemila facce che vanno analizzate, ma principalmente si deve mettere il dvd nel lettore e, senza telefonini, senza social network e applicazioni varie, ci si deve lasciar andare completamente, lasciandosi emozionare fino alla fine.
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