Lo stato dell’arte del teatro musicale in Italia (e non solo)
di Lucio Leone
Aladdin e The Lion King, e poi Pretty Woman, Frozen, Anastasia, Beetlejuice, Mean Girls, Tootsie, Moulin Rouge!, The devil wears Prada, Little miss Sunshine, The Prince of Egypt, Ritorno al futuro: impressionante sfilza alla faccia di chi dice che il problema del teatro musicale italiano è il rifarsi solo a titoli di cassetta ispirati a film degli anni ’80. Di qua e di là dell’Atlantico è evidente che i produttori tutti sono alla disperata ricerca di una trasmutazione alchemica che trasformi il pubblico cinematografico (o televisivo) in pubblico teatrale. Intendiamoci, molti di questi sono o saranno spettacoli di valore, ma azzardo una teoria empirica: se l’emozione che si propone alla platea è un kolossal simil-hollywoodiano, dura pensare o sperare che questa poi si innamori della (e fidelizzi alla) polvere di palcoscenico.
Chi mi conosce come firma sa che ho appeso al muro la penna del critico, e questa, benché citi spettacoli andati (o attualmente) in scena non è una recensione, ma una riflessione sullo stato dell’arte del genere nella mia veste di appassionato di teatro, di teatro musicale, di addetto ai lavori, giornalista e, non ultimo, di insegnante di storia del musical. Un lungo incipit per introdurre due titoli che sono stati un regalo per me e per chi, come me, ne ha riconosciuto valore, qualità e soprattutto potenziale importanza. Il primo è un testo totalmente inedito, si chiama Supermarket. Pensate a cosa può succedere in tempo reale durante il tempo passato, carrello o cestino alla mano, a otto persone che stanno riapprovvigionando al Super la dispensa. E a una cassiera. E a una sedia, che poi rappresenta l’intera scenografia presente sul palco visto che carrelli e cestini vanno immaginati come i cavalli nel prologo dell’Enrico V. Oppure pensate a cosa può fare un geniale autore, compositore e regista, Gipo Gurrado, con nove ottimi attori (di prosa, che dimostrano come non debbano esserci distinzioni) e una sedia. E avrete la chiave per capire il successo di questo gioiellino off andato in scena alla Sala Fontana, cioè fuori dal solito “(corto)circuito del musical”, e che, grazie al passaparola, ha avuto un ottimo riscontro tanto che probabilmente e fortunatamente tornerà la prossima stagione. Tenetelo d’occhio.
E poi c’è Appiccicati, attualmente in scena ai Filodrammatici. Pensate a una coppia che rimane… come dirlo senza dover mettere un disclaimer a tripla X?… ah sì, ecco: appiccicata (ma che mi preoccupo a fare? facile, basta il titolo), un’infermiera, un dottore-pianista e un lettino da ospedale. Oppure pensate a cosa può fare un talentuoso regista, Bruno Fornasari, con un testo spagnolo off divertente ma, ancora di più, molto ben adattato e quattro, solo quattro ottimi attori –Marta Belloni, Cristian Ruiz, Stefania Pepe e Antonio Torella, qui più pianista che attore o dottore, ma comunque… bravo attore, dottore non saprei– (di prosa e di musical, che dimostrano come non debbano esserci distinzioni) e avrete l’idea di come passare una serata intelligente prima che la tenitura finisca. Il prossimo 26 maggio.
Mi direte voi, ma questi due spettacoli hanno semmai convertito al musical spettatori abituati alla prosa, e quindi sai che sforzo? Eggià, dico io, ma intanto grazie ad Appiccicati e a Supermarket: 1°) i prosaici (prosaioli… come si dirà?) si saranno –credo, spero– accorti che il musical non è affatto un genere secondario. E poi, dimostrare a produttori, distributori, direttori artistici di sale come un musical possa essere un buon investimento persino a low-budget schifo-schifo non fa. Che, nell’economia del mio discorso e per il benessere del nostro teatro musicale, sarebbe il punto 2°).
E infine, fate che sia 3°), si sfata una volta per tutte il mito che in Italia sia normale dover subire una recitazione di serie A e una di serie B, dove A fa rima con talento, studio e serietà e B è costretta suo malgrado a far rima con canzonette (sic), balletti (sic) e –incidentalmente– qualche battuta (sigh).