Men in Italy: in teatro i muscoli non bastano
di Paolo D. M. Vitale
Una premessa necessaria
Quando uno spettacolo ha grossi difetti scriverne la recensione è molto difficile. Vuoi per non risultare offensivo verso le persone che lo hanno creato, vuoi per non far sembrare il giudizio espresso poco oggettivo e quindi non attendibile.
Per non parlare poi delle ripicche e delle ritorsioni che noi giornalisti subiamo costantemente solo perché esprimiamo il nostro libero pensiero: inviti non ricevuti, accrediti non concessi, minacce ai lettori (“non mettere il like a quel post sennò con me non ci lavori più”) e via dicendo…
Il musical italiano, purtroppo, è fatto così: non ha ancora ben compreso il ruolo fondamentale della stampa, ruolo riconosciuto e tutelato dll’articolo 21 della nostra Costituzione che cito testualmente: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
I giornalisti, chiariamolo una volta per tutte, non servono a fare pubblicità gratuita “col pezzo di colore”; i giornalisti servono ad accendere quel processo dialettico che è alla base di ogni democrazia e di ogni processo creativo. Essi hanno sì il dovere di informare circa gli avvenimenti che li circondano secondo il principio di verità, ma hanno anche il diritto di esprimere il proprio pensiero su di essi. Perché, ricordiamolo, quello espresso attraverso una recensione è pur sempre un pensiero personale e non certo la verità assoluta.
Per questi e altri motivi, i colleghi con cui mi sono confrontato mi hanno consigliato vivamente di NON scrivere la recensione di Men of Italy: “a che serve scriverne?” oppure “penseranno che tu ce l’abbia con loro!” e ancora “è come sparare sulla croce rossa”.
Precisiamolo subito a scanso di equivoci: io non ho assolutamente nulla di personale verso nessuno degli artisti o dei professionisti che hanno creato questo spettacolo (o altri spettacoli) dal momento che, di fatto, neanche li conosco!
Alla luce di tutto questo mi sono effettivamente posto delle domande: scrivere o non scrivere di uno spettacolo “sbagliato”? E’ meglio farsi dei nemici o tenersi buoni tutti? E poi ancora: qual è la missione di una rivista come Musical!? Chi deve servire il nostro lavoro: il pubblico, gli addetti ai lavori, il Teatro (con la T maiscola)? Domande difficili, specialmente in un contesto come quello del teatro italiano in cui è in atto una vera e propria “guerra dei poveri” e in cui la qualità delle messe in scena è sempre più bassa e il pubblico sempre più incapace di separare il grano dalla pula.
Durante questi giorni di riflessione mi sono tuttavia imbattuto in una citazione di George Orwell: “Se la libertà di stampa significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire.” E così, parafrasando Ivana Spagna, ogni dubbio è andato via e i perché non esistono più.
Chiedo venia per questo lungo preambolo, ma credetemi, per un giornalista c’è solo una cosa peggiore della paura di essere fraintesi: la paura di sentirsi un codardo.
La recensione
Veniamo così finalmente a Men in Italy – The musical fashion show, spettacolo inedito scritto e diretto da Alfonso Lambo che ha debuttato il 31 dicembre al Teatro Ciak di Milano con Iva Zanicchi nel ruolo della protagonista.
La trama è presto detta: Norma (la Zanicchi), proprietaria della casa di moda MIT, ritrova l’entusiasmo per il suo lavoro grazie ad Emma (Beatrice Baldaccini), la nuova creativa dell’azienda. Emma tuttavia fa innamorare Alex (Alex Belli), il modello di punta della MIT, che a causa dell’amore da lei non corrisposto decide di lasciare le passerelle; Samuel (Daniele Balconi), fratello di Emma, si innamora invece di Sara (Bianca Atzei), la figlia di Norma, e grazie al suo essere lontano dal mondo della moda diventa il nuovo testimonial MIT al posto di Alex; i vari personaggi vengono di volta in volta consigliati da Ted (Jonathan Kashanian), l’assistente di Norma. E vissero tutti felici e contenti.
Presentato come “una commedia romantica che si ispira al celebre film Il diavolo veste Prada”, ammiccando un po’ a Full Monty e un po’ a Magic Mike e con “la volontà di raccontare la bellezza maschile italiana”, Men in Italy ha decisamente superato a ribasso le nostre aspettative.
Della pellicola campione di incassi non rimane infatti che una ingenua scopiazzatura della trama, molto semplificata e con i pesonaggi appiattiti. Ogni scena, ogni dialogo, ogni coreografia hanno in realtà un unico scopo: mostrare i corpi scultorei degli “Angels Boys”, un ensemble di otto ballerini palestrati.
E qui si giunge al primo punto cruciale: è questa l’idea di “bellezza maschile italiana” che lo spettacolo aveva in mente di esaltare? Il palestrato, depilato e unto, (tra)vestito da “angelo” di Victoria Secret’s con piume, gonna, parrucca e top ascellare? Sinceramente non ci sentiamo di appoggiare una simile visione antropologica. Questo stereotipo di bellezza è culturalmente pericoloso esattamente quanto quello della modella anoressica delle sfilate di moda o della soubrette siliconata dei programmi tv. Che spazio ha la diversità in questa visione di bellezza? Attenzione, non stiamo qui mettendo in discussione la bellezza oggettiva dei corpi di questi ballerini, quanto piuttosto l’esaltazione di uno stereotipo maschile iper-estetizzato e iper-estetizzante.
Questa ostentazione continua di bicipiti e addominali, oltre ad assumere tratti inquietantemente voyeuristici, è risultata spesso anche ridicola, dal momento che la regia non ha motivato drammaturgicamente queste scelte. Perchè mai davanti ad un bar di Parigi dovrebbero passare 8 uomini in mutande?
Gli esempi di questa regia ingenua potrebbero essere tanti ma ci limitiamo a citarne uno macroscopico: se la svolta della MIT consiste nel produrre una nuova linea di intimo maschile, sexy e audace, il passaggio dal “prima” al “dopo” dovrebbe essere netto e chiaro: prima i modelli devono sfilare vestiti mentre poi, dopo l’arrivo di Emma, sfileranno in intimo. E invece no! Sin dalla primissima scena i modelli sono già in nudi (tanto che vanno passeggiando per Parigi in mutande!).
Probabilmente la responsabilità di questo effetto “spoglierello dell’8 marzo” è anche da attribuire ai costumi di Silvia Frattolillo, troppo eroticamente scontati: i marinai sexy, i gladiatori sexy, i Casanova sexy, gli angeli sexy … Tanta banalità insomma.
Al servizio di questa estetica da California Dream Men anche le coreografie di Bill Goodson. Energetiche, sicuramente, ma più da stacchetto televisivo che da spettacolo teatrale e sempre con un unico obiettivo: mostrare il corpo nudo dei ballerini! E’ da precisare comunque come sia molto difficile integrare le coreografie ad una drammaturgia quando questa drammaturgia è pressoché inesistente.
Lo stesso dicasi per la colonna sonora priva di un qualsiasi filo conduttore: famosissimi brani pop dai Backstreet Boys a Cher, passando per Britney Spears e Madonna. Una playlist da fare invidia al gay pride!
Cosa salvare di questo “fashion show”? Sicuramente il cast.
Iva Zanicchi in primis nel ruolo di… Iva Zanicchi! Perché dobbiamo dirlo, Norma non è Norma, Norma è Iva Zanicchi. Spontanea, ruspante, sicura come può esserlo soltanto una donna d’esperienza come lei. Il pubblico ride calorosamente alle sue battute (quasi sicuramente aggiunte da lei stessa e non già presenti nel testo) e applaude con affetto alle sue canzoni. La Zanicchi è sempre una presenza familiare e rassicurante.
Al suo fianco un cast variamente assortito quanto improbabile: Alex Belli, Bianca Atzei, Jonathan Kashanian, Beatrice Baldaccini, Daniele Balconi, Luca Gaudiano, Giovanna D’Angi e Michelle Perera.
I primi tre sono outsider del musical. Belli recita con una voce calda e impostata ma non canta una nota e non muove un passo di danza, la Atzei canta ma non recita (giustamente!) e Kashanian interpreta se stesso sorprendendo positivamente nel cantato.
Veterani del musical , se così possiamo definirli, gli altri cinque attori in scena. Baldaccini e Balconi restituiscono una Emma e un Samuel credibili ma che tuttavia risentono della non-regia generale. Vocalmente la Baldaccini dona sempre grandi soddisfazioni.
A Gaudiano, D’Angi e Perera è spettato invece il compito di cantare tutti i brani non interpretati direttamente dai protagonisti e lo hanno fatto divinamente, mostrando grande talento e doti vocali sopra la media. Merito anche della direzione musicale di Davide Marchi.
I prestanti quanto coreuticamente validi “Angels” sono Gianluca Briganti, Antonio Catalano, Luigi Allocca, Stefano Angiolini, Alan Bertozzi, Gianuca Conversano, Lorenzo Sorice e Axel Ahonoukoun.
L’essenziale ed elegante impianto scenografico è firmato dallo Studio Comotti mentre le indovinate luci sono di Alessandro Moccia. Le video animazioni, un po’ meno eleganti, sono di Francesca del Cupolo. Buono il suono di Marco Moccia.
In definitiva Men in Italy è uno spettacolo che, a nostro avviso, non è all’altezza del suo cast e che andrebbe profondamente riscritto. Esaltare la bellezza maschile può essere una buona idea, ma fare teatro richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di… spogliarsi.