Coitus interruptus
L’idea che ha avuto Paco Leòn in Spagna è interessante: mescolare generi diversi scegliendo il meglio di ognuno e ponendolo al servizio di un insieme composito che non esisteva. E quindi cabaret, burlesque, contemporary circus, canto armonizzato, concerto rock, musical…
Il risultato è The Hole. Il buco. Che può essere inteso in vari modi. Il “locale”, il “localaccio”, la tana, il rifugio, un wormhole e altri… lasciati alla fantasia di chi legge. Uno show che nella propria versione originale è diventato un vero e proprio fenomeno di culto con oltre un milione di spettatori. Il tutto è stato quindi preso, impacchettato e trasportato da noi ed è diventato… The Hole. Il buco. Che può essere inteso… nel solo ed unico modo immediatamente proposto dal monologo iniziale di Filippo Strocchi, l’Emcee di circostanza. Senza spazio alle interpretazioni, anzi. Il doppio senso è talmente, ma talmente unico da risultare persino imprevedibile nella sua prevedibilità.
Prima di approfondire lo spettacolo però permettetemi di spendere due parole su Strocchi. Che è un performer che apprezzo davvero molto. Canta, balla, recita molto bene e lo fa in diverse lingue, il che non guasta visto che continuiamo a ripetere che i nostri artisti hanno la limitazione della lingua quando si propongono all’estero. Strocchi invece è stato Fyero in Germania, Rum Tum Tugger in Inghilterra, Danny Zuko e un’altra mezza dozzina di ruoli iconografici in Italia e non più tardi della scorsa estate anche il Che nell’Evita diretto da Marras. Ma all’apprezzamento per i suoi talenti di performer aggiungo anche il mio personale rispetto per il suo essere andato in scena la sera della Prima malgrado l’influenza, portando se non la voce al 100% almeno la necessaria energia al personaggio che dovrebbe dare senso ed unità allo spettacolo. Il problema del suo ruolo non è quindi nel suo -indiscusso- talento, ma in quel “dovrebbe”. Perché per quanto bravo (e messa la dovuta tara alla performance per via delle problematiche di salute) lui recita da consumato performer quale è ma difetta di qualche altro elemento. Stand-up comedian (o anche cabarettisti) con molto meno talento e meno chilometri di palcoscenici di lui avrebbero portato in dote tempi comici diversi e più adatti alle battute scritte. Lui gigioneggia, prende la scena, intrattiene e snocciola battute ma resta un attore nel ruolo. Se lo spettacolo fosse stato Rocky Horror o Cabaret sarebbe stato strepitoso. In The Hole no. Certo: il pubblico ride, ma ride di una trita comicità muscolare (ma sul serio era necessaria la versione 2.0 de “l’Uselin de la comare“? Nel caso ridateci Cochi e Renato, please) e credo che lui avverta la differenza. Se chiedete a Glenn Close vestita da Norma Desmond di fare burlesque credo avreste lo stesso risultato. Una grande artista magari divertita dalla sfida ma in fondo a disagio che fa una cosa diversa da sé.
Visto che ognuno viene impiegato nel proprio rispettivo campo di riferimento gli altri artisti in scena sembrano decisamente più a proprio agio. Che fosse il contemporary circus (con la coppia di acrobati, le ninfette volanti, la Marilyn… abbondante) il burlesque (la Generalessa) o le commistioni (l’inquietante Pony Loco e la deliziosa Bola) ogni elemento aveva un proprio senso di essere. E nell’elenco del “cosa ha funzionato” un sincero e assoluto apprezzamento va senz’altro al quartetto dei Mayordomos e alle loro entusiasmanti armonie vocali. Così come c’è da dire che ho apprezzato la volenterosa e generosa regia (che ha mediato come e dove poteva legando quello che poteva essere legato, curando con particolare attenzione controscene, movimenti scenici e ritmo teatrale), e anche la scenografia, i costumi e il disegno luci che hanno saputo creare la giusta atmosfera visuale “inventando” di sana pianta il sapore di un locale di intrattenimento in uno spazio teatrale.
Quello che non funzionava proprio era il testo. Il fil rouge. Non c’era abbastanza storia perché fosse giustificata la scelta di “uno” Strocchi che potesse far decollare The Hole teatralmente, e d’altra parte non c’erano i giusti riferimenti perché l’umorismo diventasse satira e lo trasformasse in un moderno “Angelo Azzurro” (inteso come il locale di Lola Lola). E per quanto sia interessante il progetto di fare un Cotton Club con tavoli dove gustare apericena, signori Produttori decidetevi: o scegliete spazi più piccoli e sistemate l’intera sala con tavoli o fate il doppio turno. Prima si beve e si mangia e poi si vede lo show perché a chi è seduto in poltrona e vede i fortunati (o danarosi) nel parterre che sbafano Jamón serrano e sbevazzano gli viene un po’ il complesso della piccola fiammiferaia.
Rivendicazioni pseudo-socialiste a parte, le cose meglio riuscite della serata? Il medley italo-pop-trash a cappella dei maggiordomi (Victor Genestar, Bruno Gullo, Carlos Valleador e Tony Valles) e il numero della “Bola” (una toccante ballata che avrebbe fatto impazzire Federico Fellini in una vacanza a Barcellona, interpretata da una strana figura a “palla”, al secolo Almon – o meglio Julio Bellido – dedicata ad un irraggiungibile uomo ideale che volteggia -letteralmente- sopra di lei: Charlie Placais).
Quelle meno riuscite? L’ho detto prima, in fondo è solo una: il testo. La volgarità del tutto gratuita. L’occasione sprecata di avere un talentuoso uomo di teatro come Davide Calabrese e costringerlo a scrivere per l’adattamento italiano battute in stile comicità bidimensionale buone al massimo per un format televisivo di Rete4 anni ’80. Volevate ispirarvi a un Berliner Kabarett? Prendete ad esempio quelli dell’epoca d’oro non solo per arredi e atmosfera, ma anche per ironia, comicità… capacità di dissacrare! La volgarità funziona se è strumento, viceversa è noiosa. Ironizzate perciò come si faceva allora su politica, costumi, società attraverso il sesso (il che comprendeva quintalate di battute zozze). Fateci ridere tantissimo e però anche pensare. L’operazione diventa alta. Se invece fate il contrario (posto che è tristissimo sentire il pubblico entusiasmarsi solo per una parolaccia, un paio di tette o un pisello al vento -di nuovo: letteralmente, visto che il Pony Loco ha volteggiato appeso a una quindicina di metri d’altezza con le pudenda all’aria- in quanto tali)… bah: considerato il contesto restiamo in tema e diciamo che tra i tanti metodi anticoncezionali,astinenza a parte, il meno divertente credo resti sempre il coito interrotto.
Si parte con ottime premesse e magari ci sono un paio di momentucci niente male ma poi… la conclusione non è mica ‘sto gran granché.
Ecco, The Hole è così.
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The Hole
Teatro Linear4Ciak – Viale Puglie – Milano
dal 3 dicembre 2015 al 3 gennaio 2016
http://www.theholeshow.it/