Evita, fra enfasi populiste e commosse delicatezze
Riuscito allestimento del musical di Andrew Lloyd Webber al Teatro Regio di Torino nella prima esecuzione assoluta della versione per orchestra sinfonica.
di Alessandro Mormile
Nelle sue ultime stagioni liriche, il Teatro Regio di Torino, grazie all’intuito e alla culturalmente coraggiosa direzione artistica di Gastón Fournier-Facio, si è aperto al musical. Oltre a West Side Story di Bernstein, che forse musical non è, ma è esempio, anzi il simbolo di quella che può definirsi opera americana, si sono visti due musical di Andrew Lloyd Webber: Cats e, oggi, Evita, entrambi celeberrimi.
Evita è stato proposto al Regio in una versione particolare, che ha visto il compositore in persona occuparsi della revisione della partitura per orchestra sinfonica, così da fare di questa rappresentazione torinese una sorta di prima assoluta di un tour internazionale che in Italia ha toccato il solo palcoscenico del Regio. Davvero un’occasione da non perdere, così che le otto affollatissime recite in cartellone sono state prese d’assalto da un pubblico interessato ed entusiasta.
Ma sgombriamo subito il campo dagli equivoci. Evita, che Webber compose nel 1978 su versi di Tim Rice – liberamente ispirato alla vita di María Eva Duarte de Perón (chiamata semplicemente Evita), che da umile attrice e cantante di tango divenne moglie del colonnello Perón e dunque First Lady dell’Argentina degli anni Quaranta, ma per pochi anni, prima della sua prematura morte per un tumore, mitizzata ed amata dal popolo al punto da divenire “leader spirituale della Nazione” – non è a conti fatti un musical; è un’opera a tutti gli effetti.
Danze e inserti coreografici non mancano, ma quando l’enfasi populista di alcune sue scene cede il passo ai momenti più tragicamente toccanti della vita di Evita, soprattutto dinanzi alla malattia, la commozione prende il sopravvento e regala pagine da autentico melodramma; vedasi la canzone “You Must Love Me”, che la donna sofferente rivolge al marito, l’”Eva’s Final Broadcast” e, soprattutto, il commosso “Lament” finale, “The choise was mine and mine completely”, dove davvero si toccano le corde di una intimità dolorosa in bilico fra musical e melodramma.
La narrazione avviene in flashback, con il personaggio di Che che, da narratore del popolo vestito appunto come il celebre Guevara, percorre a ritroso il rapido ma intenso tragitto di vita di Evita, la sua salita al potere dalle umili origini, l’immensa popolarità e l’amore del suo popolo come fedele sostenitrice del “Peronismo”, i suoi viaggi in Europa (Il Tour dell’Arcobaleno) e la chiamata inesorabile del destino che pose fine alla sua giovane vita scatenando manifestazioni di cordoglio assolutamente fuori dal comune e lasciando in eredità alla sua gente quell’immensa popolarità e una venerazione in odor di santità populistica.
Un personaggio che è appartenuto alla storia e che il musical di Webber ricalca con emozione e pregnante efficacia teatrale. Celeberrima la versione cinematografica diretta da Alan Parker, con Madonna e Antonio Banderas, che nel 1997 vinse l’Oscar per la migliore canzone.
Lo spettacolo visto a Torino, con la regia di Bob Tomson e Bill Kenwright, la coreografia di Bill Deamer, le scene e i costumi di Matthew Wright, le luci di Tim Oliver e il suono di Dan Samson, è di godibilissima efficacia, ma soprattutto poggia sulle spalle di una superba compagnia.
Formidabile il ballerino, cantante e attore Gian Marco Schiaretti, già noto per aver preso parte in Italia a musical come Il gobbo di Notre Dame, Romeo e Giulietta, Tarzan e Biancaneve, che da narratore ipercritico della vita di Evita, ne osserva la parabola, dalla ascesa al crollo, con momenti di grande efficacia nella canzone “Oh What a Circus!”, cantata mentre l’uomo del popolo, dopo la morte di Evita, si prende gioco con toni caustici della sua “divinizzazione”.
Lei è interpretata da Madalena Alberto, cantante e attrice portoghese che vanta una invidiabilissima carriera nel musical sulle scene londinesi; ha una voce che subito conquista, che non solo sa trovare toni eloquenti ed insieme delicati in uno splendido “Don’t Cry For Me, Argentina” – celeberrima pagina, cantata ad apertura del secondo atto, sul balcone della Casa Rosada ad elezione del Presidente appena avvenuta e dinanzi a una folla di sostenitori osannanti – ma nel finale sa essere toccante nel tratteggiare le scene del dolore con commossa efficacia.
Bravi tutti gli altri, compreso Jeremy Secomb, nei panni di Perón, Presidente dell’Argentina e marito di Evita, così affiatati e ben calati nelle loro parti da lasciare il segno.
Al termine dello spettacolo si esce da teatro e si finisce per credere alla favola di Evita, donna divenuta un’icona per la sua Patria, protettrice dei bisognosi e di quei “descamisados” che portarono nel cuore la loro protettrice, simbolo di eleganza e di una capacità di comprendere e farsi carico delle esigenze di un popolo che l’ha idolatrata, rendendola una sorta di santa laica del suo tempo, o per meglio dire, senza il rischio di cadere nella mitizzazione, un’esperta della comunicazione di massa.