
Da West Side Story ad Hamilton: il difficile compito dell’integrazione razziale nel musical
«Tutto il team di lavoro de Il principe d’Egitto ritiene che il dibattito sorto attorno al casting di questo concerto sia importante e apprezza il feedback costruttivo ricevuto da molti amici e colleghi. (…) Ma ci sono stati anche improduttivi attacchi personali e commenti nei social media contro i nostri attori. Questa è la ragione specifica per cui il team creativo e i produttori hanno cancellato il concerto e per ora continueranno lo sviluppo di questo nuovo musical in privato. (…) Gli attori di talento che dovevano essere coinvolti in questo concerto sono stati pagati molto poco e sono stati impegnati solo ad aiutare lo sviluppo di questo spettacolo per una notte, a titolo gratuito, nel nostro parco locale. Non si poteva certo chiedere loro di sopportare le molestie online per una lettura-concerto di una notte. Infine, il team creativo e i produttori alla DreamWorks Theatricals sono convinti che la storia di Mosè sia una di quelle che abbracciano milioni di persone di ogni paese, razza e cultura; (…) è sempre stato un nostro obiettivo creare il pezzo in modo che le persone di tutte le razze e le culture possano un giorno raccontare la storia».
Con queste parole, lo scorso luglio, il regista Scott Schwartz ha commentato la cancellazione di un workshop del nuovo adattamento teatrale di The Prince of Egypt, in seguito alle pesanti proteste sulla mancanza di attori neri nel cast.
L’argomento è spinoso e quanto mai attuale, se pensiamo alle analoghe polemiche per le nomination “troppo bianche” agli Oscar 2016 (con il conseguente boicottaggio da parte di attori come Will Smith) o ai continui episodi di violenza fra la polizia e la popolazione afroamericana.
Ma allora anche la community di Broadway è razzista? Personalmente ricordo una performance di The Color Purple nel 2007: credo di essere stato l’unico bianco in sala, come se solo la comunità di colore fosse interessata.
Del resto tra le prime forme di teatro americano si ricorda il minstrel show, una specie di varietà in cui dei bianchi con la faccia dipinta prendevano in giro i neri, rappresentandoli in modo caricaturale come ignoranti, pigri e superstiziosi (ma indirettamente servivano anche a divulgare presso il grande pubblico la loro nuova musica):
Il tema razziale è al centro anche di Showboat di Jerome Kern del 1927, un musical rivoluzionario che al posto delle Follies in voga all’epoca proponeva una storia tragica. La protagonista Julie infatti è costretta a lasciare la Cotton Blossom, una nave da spettacolo che solca le acque del Mississippi, quando si scopre che è una mulatta sposata con un bianco; non a caso la canzone con cui dà consigli sull’amore all’amica Magnolia, Can’t help loving dat man, è conosciuta solo dai neri:
Sono indubbiamente rari i musical che privilegiano le minoranze; forse il più famoso è The Wiz, rilettura del Mago di Oz con un cast all-black. Molti ricorderanno il film di Sidney Lumet del 1978 con Diana Ross e Michael Jackson:
La questione non riguarda esclusivamente i neri, ma tutte le minoranze. Come dicono quelli di Avenue Q, infatti, Tutti siamo un poco razzisti:
Quando la produzione originale di Miss Saigon si trasferì da Londra a Broadway il sindacato degli attori (Equity) cercò di impedire a Jonathan Pryce, un attore bianco, di ricreare il ruolo dell’Engineer, il protettore di Kim: secondo la dichiarazione del segretario Alan Eisenberg, «Il casting di un attore caucasico fatto apparire asiatico è un affronto alla comunità asiatica; la scelta di un attore asiatico sarebbe un’importante e significativa opportunità per rompere il solito schema di inserimento di asiatici in ruoli minori». Le proteste del produttore Cameron Mackintosh, che minacciava di cancellare lo show, lo “status di star” di Pryce (una clausola che permette agli attori famosi di recitare a Broadway senza che venga fatto un preliminare casting americano) e il fatto che il personaggio sia in realtà franco-vietnamita permisero alla fine a Pryce di recitare al fianco di Lea Salonga. Ma non è forse un caso che il cast del 25° Anniversario (proiettato nei cinema il 16 ottobre e a Broadway in primavera) annoveri i magnifici Jon Jon Briones come Engineer e la filippina Eva Noblezada nella parte di Kim: questa forma di “tutela delle quote” ha parimenti fatto sì che parti come quella di Billy Elliot siano state affidate a ragazzini di colore (Layton Williams) o orientali (Alex Ko).
Che il problema esista è confermato anche dal casting fuori degli schemi di Hamilton, che fa espressa richiesta di non-white actors per i ruoli principali. Come si sa, il musical vincitore del premio Pulitzer narra la storia del “bastardo” Alexander Hamilton, che prese parte alla guerra di indipendenza americana nel 1776, arrivando a essere nominato Segretario di Stato. Qui i Padri Fondatori (come George Washington, Thomas Jefferson e James Madison) sono interpretati da attori neri (che oltretutto cantano rap e hip hop!), mentre ai bianchi è riservata sostanzialmente solo la parte di Re Giorgio di Inghilterra. Anche le Schuyler Sisters, le Destiny’s Child della New York del XVIII secolo, sono rispettivamente nera (Angelica), asiatica (Eliza) e latina (Peggy):
In questa maniera, piuttosto polemica, il suo ideatore Lin-Manuel Miranda presenta l’America come il risultato di un incredibile melting pot e che, se pure la sua costituzione ispira ancora le persone dopo 250 anni, forse la storia dei suoi geniali autori può essere raccontata diversamente, cosicché ogni americano di oggi vi si possa riconoscere. Del resto, con le sue origini portoricane Miranda sa cosa voglia dire per un immigrato conquistarsi un posto di rilievo, e lo ha già dimostrato in passato, sia celebrando le sue origini nel musical In the Heights (presto un film), ambientato in un quartiere latino di Manhattan, sia adattando in spagnolo le parti degli Sharks nel revival 2009 di West Side Story, un musical che più di tutti sottolinea le differenze tra i gruppi etnici:
Chissà se con il suo prepotente impatto culturale Hamilton sarà in grado di cambiare le cose. Nell’attesa, vi diamo appuntamento alla prossima puntata con la canzone che, a nostro avviso, esprime al meglio il senso della protesta degli afroamericani: